90 giorni di Cina - I PARTE
Raccontare la Cina, descriverla tenendo conto di ogni sua contraddizione e diversità, porgerla sotto gli occhi di chi non l’ha mai veduta né vissuta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta - seppure per poco - non è affatto facile.
Non lo è in primis perché novanta giorni non bastano per poter giungere alla totale comprensione di un paese che progredisce a velocità supersonica sulle basi di un’arretratezza mai sanata; secondo poi , perché non posseggo alcun tipo di competenza per dipingerla come meriterebbe, nel bene e nel male, di essere dipinta. Infine, perché dell’immenso oceano di parole che la nostra lingua dispone, per descrivere sinteticamente la Cina non esiste nulla di adeguato che sappia raccogliere nel suo spettro semantico le milioni di sfumature che animano il paese di mezzo.
In questo spazio mi limiterò semplicemente a riportare su carta quella che è stata la mia diretta esperienza, più precisamente quello che la rete dei miei sentimenti, che la mia individuale percezione ha saputo raccogliere e filtrare, nulla di più. Tra queste righe non emergerà una visione coerente, non si troverà alcuna descrizione accurata, niente che i libri di scuola possano invidiare. Questi sono i soli ricordi di un ragazzo che a ventitré anni è stato gettato in una realtà mai immaginata, che ha dovuto imparare a conoscere le luci e le ombre di una cultura intravista solo su carta; che ha dovuto ridisegnare sulla propria pelle i confini di un territorio all’improvviso sconfinato; che ha dovuto battersi con l’evidenza del fatto che la meta del viaggio quasi mai è un posto, ma ciò che si prova.
1) La turc(hi)a più bella.
I cinesi amano alla follia il rosso. Non stupisce, a ben pensarci: Mao ha saputo riunire sotto l’egida di una bandiera rossa milioni e milioni di anime disseminate su di una terra immensa. Ora, nel 2016, La Cina è ancora rossa, come macchiata dal sangue versato in nome di un’utopia omicida. Pulsa come un cuore sotto sforzo, tallonando la chimera del progresso. Anche la sua capitale, Pechino, è rossa, come lo è la città proibita e le sue mura di porpora, i vicoli stretti impolverati di tradizione e povertà; sono rossi i tetti dei padiglioni, le porte antiche sparse nella capitale; i luoghi di culto sfavillano vermigli e la coltre di smog fa del sole un occhio di bue. Nelle case da té le foglie di hongcha tingono l’acqua di tramonto; gli hongbao, sacchettini di carta riempiti di soldi che i cinesi si scambiano nei giorni di festa, rispondono alle lanterne appese ai tetti delle case; le vestigia imperiali risplendono di un rosso glorioso. Gli spiedini di lazzeruolo, lucidi di glassa, sono bolle di fuoco che spuntano dai carretti per strada. Il matrimonio è rosso, come il vestito della sposa, a simbolo di fertilità. La fortuna appesa a rovescio sull’uscio durante la festa di primavera anche è rossa. Ancora e sempre, la bandiera che sventola su piazza Tian’anmen, di fronte al sorriso bonario di Mao, ad un passo appena dal suo mausoleo, svetta fiammeggiante sullo sfondo di un cielo sempre più grigio.
Arrivato a pochi giorni dalla partenza, con bagagli e borsoni pronti, mi resi conto di non avere uno zainetto da viaggio, utile anche per i libri di scuola. Giusto pretesto per l’ennesima crisi isterica pre-partenza, dopotutto io non mi faccio mancare nulla. Nel bel mezzo del melodramma, ecco spuntare, dea ex machina, la signora Zandri, brandendo in mano uno zainetto scarlatto formato mini. Pratico, comodo, leggero e soprattutto capiente. Ma anche brutto, brutto come i cuochi della mensa in Cina. Almeno è rosso, pensai, come solo ai cinesi può piacere. Mi accorsi appena dopo della scritta “La Turchia più bella”, bianco su rosso, sulla tasca esterna. Dettaglio trascurabile, dissi tra me e me. Non masticano mezza parola di inglese, figurati l’italiano! Per quanto mi sforzi di non commettere omicidi di stile però, certe cadute sono proprie di una mente innocente come la mia. Non potevo aspettarmi la marea di sfottò (in lingua italiana, si capisce) sotto la quale sono quasi annegato quando l’ho indossato la prima volta. Bisogna immaginarmi vividamente, con dieci chili tra giacca, maglione, guanti, sciarpa e cappello, e poi questo fagottino rosso sulla schiena pieno zeppo di robaccia. E di fronte a me, gli scalini infiniti sopra i quali si staglia maestoso il profilo della grande muraglia. Non sei un eroe se non scali la grande muraglia, dicono i cinesi. Secondo me invece, non sei un eroe se non la scali con lo zainetto rosso firmato “La Turchia più bella”.
L’orrido bisogna saperlo indossare con la giusta ironia, in special modo quando ti accorgi tardi di quanto sia brutto ciò che stai indossando. Ormai, le uova si erano rotte e bisognava farne una frittata. Lo zainetto rosso è stato il mio simbolo, il mio segnale di riconoscimento, quello che mi ha reso individuabile nella labirintica Città Proibita, tra la nebbia dello smog e migliaia di occhi a mandorla. Vedevi un tizio occidentale dall’aria smarrita che pareva appena uscito da Up con un orrido zainetto rosso sulle spalle e potevi star certo che ero io. Addirittura gli amici cinesi hanno cominciato a sfottermi, e quando persino loro ti prendono in giro per l’abbigliamento, allora stai sicuro che stai oltraggiando mezzo secolo di moda. Lo zainetto era motivo di ilarità per tutti, e lo era anche la semplice ironia con il quale lo portavo. Devo ammetterlo, anche io trovavo divertente e paradossale attraversare Pechino in lungo e in largo con in spalle “la Turchia più bella”. Può sembrare un dettaglio privo di importanza questo qui. Dopotutto, perché raccontare la mia esperienza in Cina partendo proprio dello zainetto rosso? Perché parlarne (che tra l’altro è la domanda che ponevo ai miei compagni che mi perculavano senza pietà )? Be’, forse perché ha rappresentato la mia condizione psicologica: è stato il simbolo della sensazione di spaesamento che mi ha accompagnato per un buon mese e mezzo. Sradicato dal mio terreno e trapiantato sulla superficie gelata e brulla della capitale cinese, a chilometri e chilometri di distanza. Lontano da famiglia, amici e parenti. Lontano dalle abitudini, dalla quotidianità, dalla sicurezza. Lontano da casa. Mi son sentito per molto tempo spaccato a metà, con i due piedi a mezz’aria non ancora pronti ad atterrare sul suolo cinese e con le mani aggrappate ai campi verdeggianti dell’agro romano. Sono partito da Roma con due mesi di crisi negli occhi, e arrivato a Pechino con un inguardabile zainetto rosso della “Turbanitalia” e con la promessa di altri tre mesi di pianto. Confusione e controsenso, spaesamento e paradosso. ( continua...)
90 Giorni di Cina - II parte
L'assonanza tra le due parole mi permette di fare un poco elegante volo pindarico: decollare dalle bretelle rosse dello zaino turco e appollaiarmi in posizione da squat sui ricordi della turca.
Dopo aver sperimentato l'ebrezza di defecare in turca, non mi offenderò mai più se mi daranno del cesso. Anzi, me ne sentirò onorato. Scherzi a parte, la turca è stato il primo grande trauma, il vero grosso incubo. Ognuno di noi, già prima della partenza, si sforzava di immaginare come sarebbe stato. Qualsiasi pensiero non si è accostato mai abbastanza alla realtà, una volta arrivati ce ne siamo resi conto. La turca era per noi l' escrescenza diretta di Satana, l'aborto maledetto sputato dalle ovaie del comunismo più spinto, il più rocambolesco degli escamotage per costringerti a fare gli squat alle sette del mattino. Ma andiamo con ordine: il nostro dormitorio era in precedenza una galera o forse un ospedale psichiatrico, almeno così abbiamo pensato tutti. L'immenso vocabolario italiano non contiene aggettivi che si incollino in modo adeguato sull'yihaolou. Ho delle foto, inviate ad amici e parenti, ma costeggiano l'illusione che sia un posto vivibile, quando in realtà non lo è. Per capire bisogna abitarci. E, in tutta onestà, non ve lo auguro. Per dirne una, i bagni erano in comune, così come le docce. La mattina, appena alzati, ci si incontrava tutti davanti ai lavandini per spazzolarsi i denti col dentifricio all'anguria, mentre asiatici impuniti sputavano catarro giusto accanto. Poi c'era la capatina al bagno, dove si stava il meno possibile per non guastarsi la colazione. Cinque turche in fila, ognuna col suo secchietto per la cartigienica ( sì, perché le tubature di Pechino sono troppo strette per poter accogliere la carta cestinata...). Ogni mattina era un superenalotto per beccare non la latrina più profumata, figuriamoci, ma quella con meno tanfo. Aprivi la porta ed ecco: strisce di sangue, come di sacrifizi apotropaici appena compiuti; odore di urina stantia depositato sul fondo di ceramica in plastica; il secchietto di cartaigienica sporca, cui la sola idea è nauseabonda, che straripava già di primissima mattina. Di tanto in tanto decidevano di togliere l'acqua nelle ore più buie delle notte, e dovevi solo pregare Dio che non ti venisse un attacco di diarrea! Tornando alla turca, i primi tempi è stato difficile persino capire come posizionarsi. Be', per alcuni di noi lo è stato fino a poche settimane prima del ritorno. Sì, insomma, voglio dire, ci vuole tecnica per rimanere in perfetto equilibrio mentre si compie uno sforzo spesso disumano. E non ridete, vi sfido a sturarvi di sette giorni di riso bollito, stipati in una stanzetta che ricorda la Cloaca Maxima, piegati come un embrione! Ah, ovviamente bisognava portare con sè carta igienica e salviette umidificate, perché il bidet è un concetto futuristico in Europa, figuriamoci in Cina! Unico appoggio: delle tubature incrostate di ruggine e morte sulle quali non ho mai avuto il coraggio di posarci nemmeno lo sguardo. Immaginatevi quindi di dover trovare nell'intimità della turca l'equilibrio fisico e psichico per evacuare e nel frattempo trasformarsi nella dea Kalì per tenere nelle mani telefono, chiavi, carta, salviette, i pantaloni che toccano per terra (non sia mai ) e la vita che sta per precipitare nelle fogne.
La turca più bella era quella a estrema destra (come la Cina non vorrebbe mai). Era quella che costeggiava la finestra; quella con il davanzale sporgente; l'unica in cui poter poggiare tutti gli "strumenti del mestiere". E' stata la meta predestinata, ogni stramaledetta volta, fino a quando non accadde il fattaccio: va detto che, tra la finestra e la porta della turca, rimaneva uno spazio vuoto, dal quale chiunque avrebbe potuto sporgersi. Me ne sono sempre curato poco, del resto, chi mai ficcherebbe il naso nella turca? Già, chi? Ovviamente la domestica del piano. Quel giorno maledetto mi trovavo nella quiete della turca più bella, raccogliendo coraggio e forza per poter finalmente evacuare, ed ecco all'improvviso gli occhi a mandorla della fuwuyuan, intenta a curiosare. Chi mi conosce bene sa quanto disagio mi crea la nudità, mia e degli altri. Vi lascio immaginare i quarti d'ora di crisi che ho consumato sul letto. Da quel giorno non è più esistita nemmeno la turca più bella, ma solo acrobazie miracolose e chiappe d'acciaio, nel più fetido dei gabinetti
90 giorni di Cina - Acqua azzurra, acqua chiara
Prima parte
«[...] Prendere in mano la penna è come una terapia rigeneratrice e un ritorno alla vita.» P. Pasolini
Nel 1978 le stampe davano alla luce " La ferita" di Lu Xinhua. Appena due anni prima si era spento Mao Zedong e con lui anche l'ultimo lapillo della Rivoluzione Culturale era divenuto cenere nelle mani della storia. "La ferita" innesca un processo di rivalsa culturale, un lento ma costante risveglio della classe letteraria, fino a poco prima reietta e silenziata.I letterati, usciti dal periodo buio che li avevi voluti piegati sotto il peso dell'ideologia, tornavano a parlare. Ma con voce sommessa. Come se un tono troppo alto rischiasse di portare di nuovo in vita l'incubo. La scrittura assurgeva a ruolo terapeutico, esorcizzava i mali subiti nel decennio oscuro, liberava gli scrittori dal silenzio a cui erano costretti e passava veli di sale sulle ferite impresse in nome di un'utopia malsana.
Scrivere è guarire. E' la più alta forma di terapia, in quanto guarisce l'anima. Tornato da Pechino, l'ho capito più che mai. Una volta a Roma l'esigenza di comunicare era tesa più di ogni altra cosa alla necessità di medicare le ferite. Ho preso in mano la penna e lentamente nei punti lesi si sono create cicatrici. L'ironia è stata la chiave: ponendoli sotto il suo chiarore diafano ho potuto operare sui miei ricordi con la lucidità di un chirurgo e unire tra loro lembi di pelle con la sutura di una risata. Forse esagero. Dopotutto non è stata chissà quale atroce avventura. Sono stato in Cina, non in Angola a raccogliere cadaveri. E' indubbio che la Cina mi ha dato tanto. Ma prima di potermi dare ciò di cui avevo bisogno, ha dovuto creare spazio ed eliminare ciò che non mi serviva più. Sradicare abitudini e consapevolezze non è cosa da niente.
Poco prima di partire pensavo il mio problema maggiore sarebbe stato di natura economica. Ironia della sorte, quello è stato l'ultimo dei problemi. Il primo mostro che ho dovuto affrontare invece è stato l'impatto culturale. La Cina non è l'Italia. Non è nemmeno Europa. Era un dato così ovvio, così banale, eppure l'ho dato per scontato. Non ne avevo considerato gli effetti, non avevo previsto come e quanto lo scontro culturale sarebbe andato ad intaccare la quotidianità della vita, le piccole grandi sciocche certezze che diamo per scontato. In Cina ho capito: nulla è certo, meno che mai le certezze. I primi giorni si annidò in me il terrore che non mi sarei sentito mai parte di quel mondo. Nemmeno dopo averlo avvolto nei miei colori, nelle mie percezioni, nemmeno dopo averlo tradotto nel mio linguaggio. Non ne sarei potuto essere parte in alcun modo. La nostra cultura, italiana, europea e cristiana, e quella cinese, eternamente dissimili, entrano in rotta di collisione e uno scontro di tali proporzioni non può che lasciarti tramortito a piagnucolare al telefono con parenti terrorizzati; ti rompe il guscio, ti costringe ad uscire allo scoperto, arriva dritto al cuore della tua individualità. Solo ora, solo scrivendolo, mi rendo conto che la cultura in cui cresciamo crea sì delle sovrastrutture, ma che affondano le basi nel profondo del nostro intimo e diventano imprescindibili dal nostro essere. Così quando ti si chiede di venirne meno, senti di venir meno a te stesso. La avverti come una violenza. E d'improvviso le piccole certezze quotidiane si sgretolano in un pugno di sabbia: il morbido materasso di casa è ora poco più di un lenzuolo ripiegato su stesso e steso su una tavola di compensato. La tazza del bagno su cui siedi tutte le mattine dopo il caffè è un fetido stanzino con turca. Piatti di pasta al sugo, succulente bistecche e verdura fresca sono poco più di un ricordo, vicino abbastanza per ricostruirne l'aspetto, ma non per assemblarne il sapore. Il tepore domenicale è un grido incomprensibile che rimbomba nei bagni di prima mattina. L'odore del caffè aleggia misero sopraffatto dal fetore. I genitori e gli amici sono poco più che voci metalliche. Addirittura reperire acqua potabile diventa un'Odissea che a confronto quella di Ulisse è una scampagnata tra simpatici stramboidi e paradisi mediterranei. Forse non lo sapete, ma in Cina è tassativamente vietato bere acqua dai rubinetti. La causa immagino sia l'inquinamento, l'orrida insidia. Se ci siano altre ragioni non lo so. Onestamente mi sono preoccupato più delle conseguenze. Siamo lontani anni luce dai nasoni di Roma che elargiscono ettolitri di acqua ruvida e carica di sali minerali. In questa prospettiva appare paradisiaca addirittura Berlino, dove l'acqua costa sì tre volte tanto la birra, ma puoi berla senza ritrovarti un arto in più all'altezza del bacino. Qui siamo a Pechino, e non esistono possibilità alternative: l'acqua devi comprarla. A basso prezzo, si capisce. Ma anche a bassa qualità. Bassissima qualità. Sembra di ingerire l'acqua distillata del ferro da stiro. Ne avverti proprio l'inconsistenza mentre la trangugi. Scende come una liscia e sottile piastrella di metallo, ti si ancora sul fondo dello stomaco e poi ti abbandona. Al suo posto, una sete biblica appollaiata sulla trachea. E quella sete non ti abbandona mai. Alcuni giorni assumeva proporzioni mitiche tali da obbligarti a metter da parte il divieto mortale di bere dal rubinetto. Così ti recavi in bagno di corsa con tutto l'esodo biblico in gola, giravi la manopola del rubinetto, ti apprestavi a bere ma poi non osavi andare oltre. Non ci riuscivi proprio. Nonostante sentissi un tappetto di sabbia in gola, a vedere il colore cinereo dell'acqua desistevi dall'intento. Veniva da pensare a qualche orrida mostruosità che si annidava nelle condutture del bagno. Non so, magari un Basilisco con gli occhi a mandorla che con uno sguardo solo ti trasforma in un baozi! Uscivi mesto dal bagno e te ne tornavi nella tua cella con il letto in ferro grigio, desideroso di abbandonarti ad un pianto liberatorio. Ma poi la consapevolezza di avere poca acqua in corpo ti lasciava gli occhi secchi e te ne rimanevi lì, seduto su una delle sedie rubate ai vicini coreani, a contare quanti fottuti giorni ancora mancassero.
90 giorni di Cina - Acqua azzurra, acqua chiara II parte
La sete si faceva sentire, sempre e comunque. Bevande e tisane erano un timido palliativo, incapaci però di sostituire un bel bicchiere d'acqua fresca. E poi, diciamolo, erano imbevibili! Come si dice, il segreto per un buon caffè è il caffè. Ecco, il segreto per delle piacevoli tisane a base di acqua, be'... è proprio l'acqua! Bere era una necessità primaria e si era disposti a tutto pur di non finire a ubriacarsi di acqua radioattiva. Alcuni, per esempio i più indomiti ,si imbarcavano in un viaggio dal sapore omerico fino al supermercato del campus e acquistavano boccioni da cinque litri di Nongfu Spring, che tra tutte le acquacce distillate era la meno peggio. Poi tornavano verso il dormitorio, ripercorrevano il corridoio della perdizione trascinandosi dietro tre o quattro boccioni. Li vedevi lì, nel bel mezzo del campus, intenti ad architettare gli stratagemmi più folli: c'era chi legava il manico della boccia alla cintura dei pantaloni o ai lacci delle scarpe. C'era chi si faceva offrire passaggi da orientali sconosciuti motorizzati, ma dalle dubbie capacità alla guida. C'era chi invece si era munito di carrello ruotato. O ancora, chi lo scroccava al compagno di stanza. In ogni caso, il ritorno verso il dormitorio era un viaggio verso la terra promessa. L'edificio pareva tanto più distante quanto più ti avvicinavi. A volte, nel mezzo del tragitto, ci si abbandonava a lamenti ancestrali dal suono gutturale. I più pigri invece, da sempre ingegnosi per natura, avevano escogitato una soluzione a metà tra il brillante e l'agghiacciante. Ma è doveroso fornire prima un'informazione: i cinesi sono soliti bere acqua calda. Dicono faccia bene. Dicono anche che Mao è un salvatore e lo smog è nebbia, ma vabbè. In alcuni posti sono presenti dei grandi boiler contenenti acqua bollente ( Kaishui ). Utilissima per il tè e tisane affini, certo. Un po' meno per placare la sete. Si sedimentò perciò l'abitudine di riempire i boccioni vuoti di acqua bollente che dovevano essere lasciati fuori dalla finestra a raffreddarsi. E ad assorbire polveri sottili che conferivano all'acqua quel piacevole sapore rugginoso. Adesso la sola idea mi provoca furiosi conati di vomito, ma allora mi sembrò avanguardia pura. Dopotutto si sa, in tempo di vacche magre...Tale escamotage si dimostrò di vitale importanza quando scoprimmo, per vie traverse ( per di più, a pochi giorni dal ritorno ) che la tanto amata Nongfu Spring è contaminata tanto quanto l'acqua del rubinetto. Mi sono quindi rassegnato alla possibilità che tra qualche mese partorirò un alien con lineamenti orientali. Per quanto volessimo evitare di ingerire l'acqua, d'altro canto non disponevamo di null'altro per lavarci. E la pelle, i denti, i capelli, ogni cosa entrata in contatto con quel putrido succo di fogna, ne ha risentito parecchio. Sono tornato a Roma squamato, pelato e con la dentatura ridotta a scolapasta. A darci il colpo finale, il vento secco e gelido proveniente dalle steppe del Kamchatka. Unito all'acqua tossica con scorie radioattive è stata a dir poco micidiale. A metà marzo ero una landa brulla, ogni pelo un arbusto di ghiaccio. Per non parlare dei vestiti. Su alcune magliette pare ci abbia messo mano Lady Gaga. Insomma, l'acqua radioattiva ci ha fatto penare, ma mai quanto il cibo. Del resto è cosa nota, gli italiani sono maestri del vivere bene.
90 giorni di Cina - Troppo costoso
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