90 giorni di Cina - I PARTE


Raccontare la Cina, descriverla tenendo conto di ogni sua contraddizione e diversità, porgerla sotto gli occhi di chi non l’ha mai veduta né vissuta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta - seppure per poco - non è affatto facile.
Non lo è in primis perché novanta giorni non bastano per poter giungere alla totale comprensione di un paese che progredisce a velocità supersonica sulle basi di un’arretratezza mai sanata; secondo poi , perché non posseggo alcun tipo di competenza per dipingerla come meriterebbe, nel bene e nel male, di essere dipinta. Infine, perché dell’immenso oceano di parole che la nostra lingua dispone, per descrivere sinteticamente la Cina non esiste nulla di adeguato che sappia raccogliere nel suo spettro semantico le milioni di sfumature che animano il paese di mezzo.

In questo spazio mi limiterò semplicemente a riportare su carta quella che è stata la mia diretta esperienza, più precisamente quello che la rete dei miei sentimenti, che la mia individuale percezione ha saputo raccogliere e filtrare, nulla di più. Tra queste righe non emergerà una visione coerente, non si troverà alcuna descrizione accurata, niente che i libri di scuola possano invidiare. Questi sono i soli ricordi di un ragazzo che a ventitré anni è stato gettato in una realtà mai immaginata, che ha dovuto imparare a conoscere le luci e le ombre di una cultura intravista solo su carta; che ha dovuto ridisegnare sulla propria pelle i confini di un territorio all’improvviso sconfinato; che ha dovuto battersi con l’evidenza del fatto che la meta del viaggio quasi mai è un posto, ma ciò che si prova.

1) La turc(hi)a più bella.

I cinesi amano alla follia il rosso. Non stupisce, a ben pensarci: Mao ha saputo riunire sotto l’egida di una bandiera rossa milioni e milioni di anime disseminate su di una terra immensa. Ora, nel 2016, La Cina è ancora rossa, come macchiata dal sangue versato in nome di un’utopia omicida. Pulsa come un cuore sotto sforzo, tallonando la chimera del progresso. Anche la sua capitale, Pechino, è rossa, come lo è la città proibita e le sue mura di porpora, i vicoli stretti impolverati di tradizione e povertà; sono rossi i tetti dei padiglioni, le porte antiche sparse nella capitale; i luoghi di culto sfavillano vermigli e la coltre di smog fa del sole un occhio di bue. Nelle case da té le foglie di hongcha tingono l’acqua di tramonto; gli hongbao, sacchettini di carta riempiti di soldi che i cinesi si scambiano nei giorni di festa, rispondono alle lanterne appese ai tetti delle case; le vestigia imperiali risplendono di un rosso glorioso. Gli spiedini di lazzeruolo, lucidi di glassa, sono bolle di fuoco che spuntano dai carretti per strada. Il matrimonio è rosso, come il vestito della sposa, a simbolo di fertilità. La fortuna appesa a rovescio sull’uscio durante la festa di primavera anche è rossa. Ancora e sempre, la bandiera che sventola su piazza Tian’anmen, di fronte al sorriso bonario di Mao, ad un passo appena dal suo mausoleo, svetta fiammeggiante sullo sfondo di un cielo sempre più grigio.

Arrivato a pochi giorni dalla partenza, con bagagli e borsoni pronti, mi resi conto di non avere uno zainetto da viaggio, utile anche per i libri di scuola. Giusto pretesto per l’ennesima crisi isterica pre-partenza, dopotutto io non mi faccio mancare nulla. Nel bel mezzo del melodramma, ecco spuntare, dea ex machina, la signora Zandri, brandendo in mano uno zainetto scarlatto formato mini. Pratico, comodo, leggero e soprattutto capiente. Ma anche brutto, brutto come i cuochi della mensa in Cina. Almeno è rosso, pensai, come solo ai cinesi può piacere. Mi accorsi appena dopo della scritta “La Turchia più bella”, bianco su rosso, sulla tasca esterna. Dettaglio trascurabile, dissi tra me e me. Non masticano mezza parola di inglese, figurati l’italiano! Per quanto mi sforzi di non commettere omicidi di stile però, certe cadute sono proprie di una mente innocente come la mia. Non potevo aspettarmi la marea di sfottò (in lingua italiana, si capisce) sotto la quale sono quasi annegato quando l’ho indossato la prima volta. Bisogna immaginarmi vividamente, con dieci chili tra giacca, maglione, guanti, sciarpa e cappello, e poi questo fagottino rosso sulla schiena pieno zeppo di robaccia. E di fronte a me, gli scalini infiniti sopra i quali si staglia maestoso il profilo della grande muraglia. Non sei un eroe se non scali la grande muraglia, dicono i cinesi. Secondo me invece, non sei un eroe se non la scali con lo zainetto rosso firmato “La Turchia più bella”.
L’orrido bisogna saperlo indossare con la giusta ironia, in special modo quando ti accorgi tardi di quanto sia brutto ciò che stai indossando. Ormai, le uova si erano rotte e bisognava farne una frittata. Lo zainetto rosso è stato il mio simbolo, il mio segnale di riconoscimento, quello che mi ha reso individuabile nella labirintica Città Proibita, tra la nebbia dello smog e migliaia di occhi a mandorla. Vedevi un tizio occidentale dall’aria smarrita che pareva appena uscito da Up con un orrido zainetto rosso sulle spalle e potevi star certo che ero io. Addirittura gli amici cinesi hanno cominciato a sfottermi, e quando persino loro ti prendono in giro per l’abbigliamento, allora stai sicuro che stai oltraggiando mezzo secolo di moda. Lo zainetto era motivo di ilarità per tutti, e lo era anche la semplice ironia con il quale lo portavo. Devo ammetterlo, anche io trovavo divertente e paradossale attraversare Pechino in lungo e in largo con in spalle “la Turchia più bella”. Può sembrare un dettaglio privo di importanza questo qui. Dopotutto, perché raccontare la mia esperienza in Cina partendo proprio dello zainetto rosso? Perché parlarne (che tra l’altro è la domanda che ponevo ai miei compagni che mi perculavano senza pietà )? Be’, forse perché ha rappresentato la mia condizione psicologica: è stato il simbolo della sensazione di spaesamento che mi ha accompagnato per un buon mese e mezzo. Sradicato dal mio terreno e trapiantato sulla superficie gelata e brulla della capitale cinese, a chilometri e chilometri di distanza. Lontano da famiglia, amici e parenti. Lontano dalle abitudini, dalla quotidianità, dalla sicurezza. Lontano da casa. Mi son sentito per molto tempo spaccato a metà, con i due piedi a mezz’aria non ancora pronti ad atterrare sul suolo cinese e con le mani aggrappate ai campi verdeggianti dell’agro romano. Sono partito da Roma con due mesi di crisi negli occhi, e arrivato a Pechino con un inguardabile zainetto rosso della “Turbanitalia” e con la promessa di altri tre mesi di pianto. Confusione e controsenso, spaesamento e paradosso. ( continua...)

 

90 Giorni di Cina - II parte


L'assonanza tra le due parole mi permette di fare un poco elegante volo pindarico: decollare dalle bretelle rosse dello zaino turco e appollaiarmi in posizione da squat sui ricordi della turca.
Dopo aver sperimentato l'ebrezza di defecare in turca, non mi offenderò mai più se mi daranno del cesso. Anzi, me ne sentirò onorato. Scherzi a parte, la turca è stato il primo grande trauma, il vero grosso incubo. Ognuno di noi, già prima della partenza, si sforzava di immaginare come sarebbe stato. Qualsiasi pensiero non si è accostato mai abbastanza alla realtà, una volta arrivati ce ne siamo resi conto. La turca era per noi l' escrescenza diretta di Satana, l'aborto maledetto sputato dalle ovaie del comunismo più spinto, il più rocambolesco degli escamotage per costringerti a fare gli squat alle sette del mattino. Ma andiamo con ordine: il nostro dormitorio era in precedenza una galera o forse un ospedale psichiatrico, almeno così abbiamo pensato tutti. L'immenso vocabolario italiano non contiene aggettivi che si incollino in modo adeguato sull'yihaolou. Ho delle foto, inviate ad amici e parenti, ma costeggiano l'illusione che sia un posto vivibile, quando in realtà non lo è. Per capire bisogna abitarci. E, in tutta onestà, non ve lo auguro. Per dirne una, i bagni erano in comune, così come le docce. La mattina, appena alzati, ci si incontrava tutti davanti ai lavandini per spazzolarsi i denti col dentifricio all'anguria, mentre asiatici impuniti sputavano catarro giusto accanto. Poi c'era la capatina al bagno, dove si stava il meno possibile per non guastarsi la colazione. Cinque turche in fila, ognuna col suo secchietto per la cartigienica ( sì, perché le tubature di Pechino sono troppo strette per poter accogliere la carta cestinata...). Ogni mattina era un superenalotto per beccare non la latrina più profumata, figuriamoci, ma quella con meno tanfo. Aprivi la porta ed ecco: strisce di sangue, come di sacrifizi apotropaici appena compiuti; odore di urina stantia depositato sul fondo di ceramica in plastica; il secchietto di cartaigienica sporca, cui la sola idea è nauseabonda, che straripava già di primissima mattina. Di tanto in tanto decidevano di togliere l'acqua nelle ore più buie delle notte, e dovevi solo pregare Dio che non ti venisse un attacco di diarrea! Tornando alla turca, i primi tempi è stato difficile persino capire come posizionarsi. Be', per alcuni di noi lo è stato fino a poche settimane prima del ritorno. Sì, insomma, voglio dire, ci vuole tecnica per rimanere in perfetto equilibrio mentre si compie uno sforzo spesso disumano. E non ridete, vi sfido a sturarvi di sette giorni di riso bollito, stipati in una stanzetta che ricorda la Cloaca Maxima, piegati come un embrione! Ah, ovviamente bisognava portare con sè carta igienica e salviette umidificate, perché il bidet è un concetto futuristico in Europa, figuriamoci in Cina! Unico appoggio: delle tubature incrostate di ruggine e morte sulle quali non ho mai avuto il coraggio di posarci nemmeno lo sguardo. Immaginatevi quindi di dover trovare nell'intimità della turca l'equilibrio fisico e psichico per evacuare e nel frattempo trasformarsi nella dea Kalì per tenere nelle mani telefono, chiavi, carta, salviette, i pantaloni che toccano per terra (non sia mai ) e la vita che sta per precipitare nelle fogne.
La turca più bella era quella a estrema destra (come la Cina non vorrebbe mai). Era quella che costeggiava la finestra; quella con il davanzale sporgente; l'unica in cui poter poggiare tutti gli "strumenti del mestiere". E' stata la meta predestinata, ogni stramaledetta volta, fino a quando non accadde il fattaccio: va detto che, tra la finestra e la porta della turca, rimaneva uno spazio vuoto, dal quale chiunque avrebbe potuto sporgersi. Me ne sono sempre curato poco, del resto, chi mai ficcherebbe il naso nella turca? Già, chi? Ovviamente la domestica del piano. Quel giorno maledetto mi trovavo nella quiete della turca più bella, raccogliendo coraggio e forza per poter finalmente evacuare, ed ecco all'improvviso gli occhi a mandorla della fuwuyuan, intenta a curiosare. Chi mi conosce bene sa quanto disagio mi crea la nudità, mia e degli altri. Vi lascio immaginare i quarti d'ora di crisi che ho consumato sul letto. Da quel giorno non è più esistita nemmeno la turca più bella, ma solo acrobazie miracolose e chiappe d'acciaio, nel più fetido dei gabinetti

 

90 giorni di Cina - Acqua azzurra, acqua chiara

 

Prima parte 

«[...] Prendere in mano la penna è come una terapia rigeneratrice e un ritorno alla vita.» P. Pasolini

Nel 1978 le stampe davano alla luce " La ferita" di Lu Xinhua. Appena due anni prima si era spento Mao Zedong e con lui anche l'ultimo lapillo della Rivoluzione Culturale era divenuto cenere nelle mani della storia. "La ferita" innesca un processo di rivalsa culturale, un lento ma costante risveglio della classe letteraria, fino a poco prima reietta e silenziata.I letterati, usciti dal periodo buio che li avevi voluti piegati sotto il peso dell'ideologia, tornavano a parlare. Ma con voce sommessa. Come se un tono troppo alto rischiasse di portare di nuovo in vita l'incubo. La scrittura assurgeva a ruolo terapeutico, esorcizzava i mali subiti nel decennio oscuro, liberava gli scrittori dal silenzio a cui erano costretti e passava veli di sale sulle ferite impresse in nome di un'utopia malsana.

Scrivere è guarire. E' la più alta forma di terapia, in quanto guarisce l'anima. Tornato da Pechino, l'ho capito più che mai. Una volta a Roma l'esigenza di comunicare era tesa più di ogni altra cosa alla necessità di medicare le ferite. Ho preso in mano la penna e lentamente nei punti lesi si sono create cicatrici. L'ironia è stata la chiave: ponendoli sotto il suo chiarore diafano ho potuto operare sui miei ricordi con la lucidità di un chirurgo e unire tra loro lembi di pelle con la sutura di una risata. Forse esagero. Dopotutto non è stata chissà quale atroce avventura. Sono stato in Cina, non in Angola a raccogliere cadaveri. E' indubbio che la Cina mi ha dato tanto. Ma prima di potermi dare ciò di cui avevo bisogno, ha dovuto creare spazio ed eliminare ciò che non mi serviva più. Sradicare abitudini e consapevolezze non è cosa da niente.

Poco prima di partire pensavo il mio problema maggiore sarebbe stato di natura economica. Ironia della sorte, quello è stato l'ultimo dei problemi. Il primo mostro che ho dovuto affrontare invece è stato l'impatto culturale. La Cina non è l'Italia. Non è nemmeno Europa. Era un dato così ovvio, così banale, eppure l'ho dato per scontato. Non ne avevo considerato gli effetti, non avevo previsto come e quanto lo scontro culturale sarebbe andato ad intaccare la quotidianità della vita, le piccole grandi sciocche certezze che diamo per scontato. In Cina ho capito: nulla è certo, meno che mai le certezze. I primi giorni si annidò in me il terrore che non mi sarei sentito mai parte di quel mondo. Nemmeno dopo averlo avvolto nei miei colori, nelle mie percezioni, nemmeno dopo averlo tradotto nel mio linguaggio. Non ne sarei potuto essere parte in alcun modo. La nostra cultura, italiana, europea e cristiana, e quella cinese, eternamente dissimili, entrano in rotta di collisione e uno scontro di tali proporzioni non può che  lasciarti tramortito a piagnucolare al telefono con parenti terrorizzati; ti rompe il guscio, ti costringe ad uscire allo scoperto, arriva dritto al cuore della tua individualità. Solo ora, solo scrivendolo, mi rendo conto che la cultura in cui cresciamo crea sì delle sovrastrutture, ma che affondano le basi nel profondo del nostro intimo e diventano imprescindibili dal nostro essere. Così quando ti si chiede di venirne meno, senti di venir meno a te stesso. La avverti come una violenza. E d'improvviso le piccole certezze quotidiane si sgretolano in un pugno di sabbia: il morbido materasso di casa è ora poco più di un lenzuolo ripiegato su stesso e steso su una tavola di compensato. La tazza del bagno su cui siedi tutte le mattine dopo il caffè è un fetido stanzino con turca. Piatti di pasta al sugo, succulente bistecche e verdura fresca sono poco più di un ricordo, vicino abbastanza per ricostruirne l'aspetto, ma non per assemblarne il sapore. Il tepore domenicale è un grido incomprensibile che rimbomba nei bagni di prima mattina. L'odore del caffè aleggia misero sopraffatto dal fetore. I genitori e gli amici sono poco più che voci metalliche. Addirittura reperire acqua potabile diventa un'Odissea che a confronto quella di Ulisse è una scampagnata tra simpatici stramboidi e paradisi mediterranei. Forse non lo sapete, ma in Cina è tassativamente vietato bere acqua dai rubinetti. La causa immagino sia l'inquinamento, l'orrida insidia. Se ci siano altre ragioni non lo so. Onestamente mi sono preoccupato più delle conseguenze. Siamo lontani anni luce dai nasoni di Roma che elargiscono ettolitri di acqua ruvida e carica di sali minerali. In questa prospettiva appare paradisiaca addirittura Berlino, dove l'acqua costa sì tre volte tanto la birra, ma puoi berla senza ritrovarti un arto in più all'altezza del bacino. Qui siamo a Pechino, e non esistono possibilità alternative: l'acqua devi comprarla. A basso prezzo, si capisce. Ma anche a bassa qualità. Bassissima qualità. Sembra di ingerire l'acqua distillata del ferro da stiro. Ne avverti proprio l'inconsistenza mentre la trangugi. Scende come una liscia e sottile piastrella di metallo, ti si ancora sul fondo dello stomaco e poi ti abbandona. Al suo posto, una sete biblica appollaiata sulla trachea. E quella sete non ti abbandona mai. Alcuni giorni assumeva proporzioni mitiche tali da obbligarti a metter da parte il divieto mortale di bere dal rubinetto. Così ti recavi in bagno di corsa con tutto l'esodo biblico in gola, giravi la manopola del rubinetto, ti apprestavi a bere ma poi non osavi andare oltre. Non ci riuscivi proprio. Nonostante sentissi un tappetto di sabbia in gola, a vedere il colore cinereo dell'acqua desistevi dall'intento. Veniva da pensare a qualche orrida mostruosità che si annidava nelle condutture del bagno. Non so, magari un Basilisco con gli occhi a mandorla che con uno sguardo solo ti trasforma in un baozi! Uscivi mesto dal bagno e te ne tornavi nella tua cella con il letto in ferro grigio, desideroso di abbandonarti ad un pianto liberatorio. Ma poi la consapevolezza di avere poca acqua in corpo ti lasciava gli occhi secchi e te ne rimanevi lì, seduto su una delle sedie rubate ai vicini coreani, a contare quanti fottuti giorni ancora mancassero.

 

90 giorni di Cina - Acqua azzurra, acqua chiara II parte

La sete si faceva sentire, sempre e comunque. Bevande e tisane erano un timido palliativo, incapaci però di sostituire un bel bicchiere d'acqua fresca. E poi, diciamolo, erano imbevibili! Come si dice, il segreto per un buon caffè è il caffè. Ecco, il segreto per delle piacevoli tisane a base di acqua, be'... è proprio l'acqua! Bere era una necessità primaria e si era disposti a tutto pur di non finire a ubriacarsi di acqua radioattiva. Alcuni, per esempio i più indomiti ,si imbarcavano in un viaggio dal sapore omerico fino al supermercato del campus e acquistavano boccioni da cinque litri di Nongfu Spring, che tra tutte le acquacce distillate era la meno peggio. Poi tornavano verso il dormitorio, ripercorrevano il corridoio della perdizione trascinandosi dietro tre o quattro boccioni. Li vedevi lì, nel bel mezzo del campus, intenti ad architettare gli stratagemmi più folli: c'era chi legava il manico della boccia alla cintura dei pantaloni o ai lacci delle scarpe. C'era chi si faceva offrire passaggi da orientali sconosciuti motorizzati, ma dalle dubbie capacità alla guida. C'era chi invece si era munito di carrello ruotato. O ancora, chi lo scroccava al compagno di stanza. In ogni caso, il ritorno verso il dormitorio era un viaggio verso la terra promessa. L'edificio pareva tanto più distante quanto più ti avvicinavi. A volte, nel mezzo del tragitto, ci si abbandonava a lamenti ancestrali dal suono gutturale. I più pigri invece, da sempre ingegnosi per natura, avevano escogitato una soluzione a metà tra il brillante e l'agghiacciante. Ma è doveroso fornire prima un'informazione: i cinesi sono soliti bere acqua calda. Dicono faccia bene. Dicono anche che Mao è un salvatore e lo smog è nebbia, ma vabbè. In alcuni posti sono presenti dei grandi boiler contenenti acqua bollente ( Kaishui ). Utilissima per il tè e tisane affini, certo. Un po' meno per placare la sete. Si sedimentò perciò l'abitudine di riempire i boccioni vuoti di acqua bollente che dovevano essere lasciati fuori dalla finestra a raffreddarsi. E ad assorbire polveri sottili che conferivano all'acqua quel piacevole sapore rugginoso. Adesso la sola idea mi provoca furiosi conati di vomito, ma allora mi sembrò avanguardia pura. Dopotutto si sa, in tempo di vacche magre...Tale escamotage si dimostrò di vitale importanza quando scoprimmo, per vie traverse ( per di più, a pochi giorni dal ritorno ) che la tanto amata Nongfu Spring è contaminata tanto quanto l'acqua del rubinetto. Mi sono quindi rassegnato alla possibilità che tra qualche mese partorirò un alien con lineamenti orientali. Per quanto volessimo evitare di ingerire l'acqua, d'altro canto non disponevamo di null'altro per lavarci. E la pelle, i denti, i capelli, ogni cosa entrata in contatto con quel putrido succo di fogna, ne ha risentito parecchio. Sono tornato a Roma squamato, pelato e con la dentatura ridotta a scolapasta. A darci il colpo finale, il vento secco e gelido proveniente dalle steppe del Kamchatka. Unito all'acqua tossica con scorie radioattive è stata a dir poco micidiale. A metà marzo ero una landa brulla, ogni pelo un arbusto di ghiaccio. Per non parlare dei vestiti. Su alcune magliette pare ci abbia messo mano Lady Gaga. Insomma, l'acqua radioattiva ci ha fatto penare, ma mai quanto il cibo. Del resto è cosa nota, gli italiani sono maestri del vivere bene.

 

 

90 giorni di Cina - Troppo costoso

 

" 千里之行始于足下" (老子)

"Persino un viaggio di mille miglia comincia con un passo"(Laozi)

Quando me lo chiedono, mi risulta difficile rintracciare il primo vero passo fatto  una volta approdato in Cina. Intendo dire, il primo passo  compiuto con coscienza del viaggio, con la consapevolezza più accesa. Il primo passo fatto col sorriso. Quello da cui è iniziato il mio vero viaggio, fuori di me, a Pechino, e dentro di me. Delle prime due settimane ho pochi ricordi, perlopiù stralci dai contorni poco nitidi, brevi flash di momenti, e tutti suonano più come l'eco di un incubo che come qualcosa da rivivere nella memoria. Mi tornano in mente mattinate incerte, la voglia di non svegliarsi, di restare ancorati alla tavola di compensato che fungeva da materasso, i conati di vomito per gli odori che emetteva la turca. Mi tornano in mente il terrore di certi pranzi in mensa, la coltre di inquinamento che circondava il cielo in certe giornate, dove non si vedeva ad un passo. Mi tornano in mente le prime nottate, a vivere incubi senza nemmeno chiudere gli occhi, quelle ore buie trascorse ad inghiottire le lacrime col volto nascosto nel cuscino. Mi tornano in mente scene di disperazione il primo giorno durante l'iscrizione all'università, la baraonda, i cinesi che parlavano velocissimi e noi che capivamo una parola ogni trenta, il vento siberiano che riecheggiava nelle ossa, anche se al chiuso. E poi ancora quella sensazione densa di angoscia, il sentimento di impotenza e di smarrimento appena arrivati nel campus e la sera stessa trascorsa nel bar più occidentale di tutto il quartiere a cercare di chiamare la famiglia, di rintracciare una voce amica, che sapesse di casa. Io le prime settimane mi aggiravo come uno spettro per i corridoi del dormitorio, così almeno mi hanno riportato, in cerca di un conforto, di un abbraccio, di un spalla su cui piangere. Non ne ho memoria alcuna, ad essere sincero, ma mi fido. Mi sentivo bloccato, questo lo ricordo già meglio, avvertivo un senso a metà tra l'impossibilità di muoversi e il bisogno di immobilità, come se fossi incastrato tra la prematura nostalgia di casa e l'ostinazione ad adattarmi alla nuova realtà, ad ogni costo. Arrancavo. Arrancavamo tutti. Di quei giorni però ricordo bene una cosa: i volti pallidi dallo sconcerto dei miei compagni di viaggio, di quelli le cui espressioni naturali avevo conosciuto bene e persino di quelli di cui non potevo ricostruirle con certezza, ma immaginavo ben diverse da quelle che osservavo ora. Che strano, sogni per una vita intera di esplorare questo grande posto che chiamiamo mondo, e quando ti si staglia davanti con tutta la sua sublime immensità, rimani a guardarlo immobile, senza il coraggio di muovere un passo. A volte mi ritrovo a chiedermi se fosse l'ignoto fuori da me che mi spaventasse davvero o gli angoli reconditi dentro di me. Forse oggi ho la risposta. Poi qualcosa d'un tratto si è messo in moto. Non so dire perché, non so dire come, non so dire nemmeno cosa. Immagino che sia stato l'istinto di sopravvivenza. Oppure quella strenua ostinazione di raccogliere il meglio da un'esperienza come questa, di non perdere l'occasione, a qualsiasi costo. Nell'oceano di ricordi opachi che mi son rimasti, fatico a riconoscere il volto dorato di quel momento preciso, ma lo percepisco. Alcuni giorni più di altri. Perso com'è nella nebbia accecante prodotta dal tempo, non ne vedo che un lama di luce che brilla tiepida, ma già all'orizzonte il velo si dirada. Mi avvicino sempre di più e mi sembra di riconoscere profili solidi di edifici moderni, folle di teste nere che si aggirano sulla retta di un grande viale, i colori al neon di alcune insegne. Un altro passo nel sentiero incerto della memoria, e mi sembra di udire delle voci, tante voci, un fracasso bestiale, e due lingue, una remota fino ad allora ma adesso insopportabilmente vicina e l'altra che tenevo stretta a me con tutte le forze per paura mi abbandonasse. Sono alle porte del ricordo ed è subito marzo, forse la seconda settimana. Prendo in mano il cellulare e mando gli auguri di compleanno ad un amico. Ma non scrivo. Forse è un messaggio audio. Sì è un audio. Io e la mia amica intoniamo in coro la canzoncina di buon compleanno in una lingua che doveva essere cinese ma lo sembrava poco. Alziamo il capo e di fronte a noi vi è una costruzione in stile antico. Spicca per i colori, pensiamo. Rosso imperiale, verde sottobosco, blu oltremare. Ma esistono 'sti colori? Scherza la mia amica. O forse, aggiungo senza darle troppo retta, spicca perché tutt'intorno non vi sono che palazzi moderni. Dietro di noi, riconosciamo l'insegna di H&M, voltandoci scorgiamo appena le curve giallognole della m del fast food più famoso nell'intero cosmo. Di tanto in tanto ci distrae il rumore della fotocamera. E' Marzia che ci fa foto. Ogni scatto, cinquanta yuan, tondi tondi! Ma poi te le rivendi su Sani Market? Ci viene da ridere. Ma Marzia non ha la fotocamera in mano, mi fa notare la mia compagna. Sono i cinesi. Guardano stupiti il ragazzo nel nostro gruppo, quello biondo biondo, alto come un watusso, con due lapislazzuli incastonati negli occhi . Il nostro amico conosciuto ieri. Il nostro amico di non so quale paese anglofono. Nuova Zelanda, mi pare. Forse Australia. Ma non era tedesco? No, un paese anglofono! Ma perché parlano inglese in Nuova Zelanda? Certo che sì. Ma a me le foto non le fa nessuno? No Matt, hai gli occhi a mandorla come loro! Come hai detto che si chiama 'sto posto, Spartaco? Wangfujing! E' qui che si mangiano gli insetti, vero? Tra un negozio di servizi di bacchette in porcellana e legno di teak, e una piccola boutique che vende foulard di seta cinese a pochi yuan, si apre allo sguardo una stretta feritoia, sovrastata da un portico magnificente in stile antico, gremita di frotte di turisti occidentali, frastornati quanto noi, se non di più, che inseguono il folklore orientale dove non sanno di non poterlo trovare; famigliole cinesi desiderose di trascorrere un pomeriggio insieme; giovani adolescenti che sarebbero dovuti rimanere a casa per memorizzare chissà quanti libri per il giorno dopo. Appena all'entrata, scorrono due file interminabili di bancarelle, su entrambi i lati, da cui provengono zaffate pestilenziali di cibo appena cucinato, acri come di sudore ascellare, al quale si aggiunge il tanfo dell'immondizia dei cassonetti colmi fino sopra l'orlo. E' un odore che non so scordare, rimane sui vestiti, ti infesta l'olfatto, si annida fin sotto la pelle. In bilico tra la curiosità accesa e un timore palpabile, ci facciamo coraggio ed entriamo nella stretta viuzza.A balzare subito all'occhio sono gli spiedini di scorpione che svettano dalle bancarelle, come se offerte a ricco e onorevole pasto. Basta spostare di poco lo sguardo per accorgersi di un cimitero di insetti, molluschi, rettili e aracnidi, alcuni già affogati nell'olio bollente ed altri infilzati da spiedini che ancora muovono le zampette. Qualcuno vuole assaggiare gli schidioni di scorpione. Forse Emilio, sì è senz'altro Emilio. Non mi stupisce: si sarebbe trangugiato una medusa ad un banchetto matrimoniale giusto qualche mese dopo, senza fare troppi complimenti. Guardo il piccolo aracnide con la stecca di legno nell'addome. Non so nascondere la curiosità. Quindici yuan, mi urla il mercante in una lingua che deve essere cinese ma a me pare un' idioma mai udito prima di allora. Lo urla di nuovo. Più forte, dentro le orecchie. Mingbaile, ho capito, stai calmo! Vorrei provare, ma il senso di disgusto che sento nella gola sfocia sul mio viso. Sembrano agonizzanti. Sono morti, interviene il mio amico. Ma perché si muovono allora? Terminazioni nervose. Ma tu li hai mangiati? Sì, l'anno scorso. Anche i bacarozzi. Intendi le blatte? Sì, i bacarozzi. Parla italiano, non ti capisco. E come sono? Sembrano Skifidol, sono gommosi e viscidi. Hai reso perfettamente l'idea. Il disgusto ha la meglio. Proseguiamo per la via. Altre bancarelle, saranno una trentina. Ma non di cibo stavolta, di cianfrusaglie, di oggetti che sai non ti serviranno mai ma desideri comprare lo stesso. Ci sono giochini per bimbi sciocchi, di quelli che si comprano sulla spiaggia a luglio, oggettistica artigianale di bassissimo profilo, servizi di piatti sul cui fondo è stampato il faccione dell'attuale presidente Xi Jinping, dragoni cinesi di plasticaccia laccata buoni giusto come ferma - porte. Qui si può trattare sul prezzo regà, urla Marzia, e sparisce nella folla, inghiottita dalla massa urlante di cinesi. Gli altri la seguono. Già me li immagino i mercanti, poverini, disperati e in lacrime per colpa della ragazza bionda da quel paese che somiglia alla Spagna che con due yuan si è comprata mezza Wangfujing. Poi un ricordo nel ricordo. Il 27 febbraio. All'entrata della muraglia cinese c'erano dei piccoli mercatini dove si poteva comprare trattando il prezzo. Feci lì la mia prima compera in Cina. Il libretto rosso di Mao. Mi sembrò un affarone averglielo estorto a 50 yuan. Ma poi ecco, una giovane venditrice mi spinge a comprare lo stesso articolo. Youle, ce l'ho già. Ma te lo faccio a 50 yuan! E che cazzo però! Scendere di prezzo è facile ,Mattè. Eh lo so Spa, ma ce l'ho già. Ti sei fatto fregare? Zitto va! Intorno a me sento i miei compagni fare affaroni, comprare chincaglierie a prezzi stracciati. Tai gui le, tai gui le, troppo costoso! Mi rimbomba nella testa. Quante volte l'avremmo detto nel corso della giornata? E quante in tre mesi? Che poi, troppo costoso cosa? Wo shi hen qiong de xuesheng, sono uno studente povero! Marzia, ma la fai finita? Ah no, è Alessia, che accattone tutte e due! Women dou shi hen qiong de xuesheng, siamo tutti studenti poveri! Ci vuole coraggio a dirlo a mercanti cinesi vestiti di stracci quando stringi tra le mani una borsa di studio di mille e passa euro! Ma che ti frega, mi dice Spartaco, qui sei ricco! In effetti, a ben pensarci, per la prima volta nella mia vita non avverto l'ostacolo economico. Mi sento ricco per davvero. Nella mia vita vera, quella in Italia, di norma non ho un soldo. A Roma se decido di andare a cena fuori vado da Montaditos il mercoledì così spendo al massimo cinque euro. Ma qui no. Io qui sono ricco. Sono un europeo, alto borghese, pieno di soldi e bello. Tutto quello che in Italia non sono mai stato. Tutto quello che per anni ho disprezzato e non ho mai voluto essere. Ho trenta euro in tasca e sono potenzialmente più abbiente di quel padre di famiglia dall'aria mesta che trascina un catino fuori dalla bettola dove cucina spaghetti e seppie a dieci yuan appena.

Insegnare il Passato Prossimo in Cina a cinesi

学习意大利语中的Passato Prossimo
意大利语有很多的时态。除了最基础的现在时(presente),最常见的就是过去完成时 (passato prossimo),这种时态在生活里是最常用的,特别是在意大利北部和中部,它已经完全取代了远过去时,在意大利的南部,它的用途TU2也渐渐JIAN4变得越来越广泛
PASSATO PROSSIMO表达一种事实或行动,这种事实或行动发生在最近的过去,或者是很久以前发生的事情,但仍然与现在有关 。

PASSATO PROSSIMO是一个复合时态 ( 节奏composto ),这意味着由两部分组成的, 前面你需要使用一个辅助动词 – 可以是 essere 或者“ avere ” * 我们再看shenmeshihouyongESSERE 或AVERE– 。记住了 你们要用现在时的ESSERE 或AVERE 的动词。后面ne加上一个过去分词过去分词的一个例子是动词“ mangiare ”的“ mangiato ” 这个被称为PARTICIPIO PASSATO!

为了形成过去式,你需要知道两件事情。
1动词的过去分词

为了形成过去分词先要看动词的变位》

变位你们记得吗, 有三种 ARE ERE IRE
以ARE结尾的动词yao加上ATO
以ERE结尾的动词加上UTO
以IRE结尾的动词加上ITO
2什么时候需要使用辅助动词“ essere ”或 “ avere ”?

如果动词与动作,变化或生活有关,我们就会用ESSERE 作为辅助动词。
例如,如果你想说,“我去年夏天去了罗马”,你需要使用动词“ andare ”。动词“ andare ”的过去分词就是“ andato,所以我们会说
io l-anno scorso sono andato a Roma, 因为andare 跟动作有关我们就用了现在时的essere作为辅助 动词“ ANDARE

注意,过去分词必须在数4量4和性4别2上达成一致。

我来说四个句子作为列子

L'estate scorsa Marco e andato a roma。 - MARCO去年夏天去了罗马。 (男性,单数)

L-estate scorsa Maria e andata罗马。 - MARIA去年夏天去了罗马。 (女性,单数)

L'estate estate scorna mia sorella e mia madre sono andate a Roma。 - 我姐姐和妈妈去年夏天去了罗马。 (女性,复数)

L'estate scorsa siamo andati a Roma。 - 我们去年夏天去了罗马。 (男性,复数)
如果您使用的动词是反身的 ,比如“ innamorarsi - 坠入爱河”,则需要使用“ essere ”作为辅助动词。 例如,“ Ci siamo innamorati due anni fa。 - 两年前我们坠入爱河了。INNAMORARSI

如果你使用“ avere ”作为辅助动词,那么它就简单得多,因为过去分词不必在数量和性别上达成一致。

例如,让我们用句子“我看过那部电影”。

首先,您需要使用动词“ guardare - 观看”。 “ guardare ”的过去分词是“ guardato ”。 然后你将你的辅助动词“ avere ”与现在时第一人称单数相结合,即“ ho GUARDARE

我们现在来看用于Passato Prossimo的常用表达式
Ieri

昨天

ieri pomeriggio

昨天下午

Ieri sera

昨晚

il mese scorso

上个月

l'altro giorno

另一天

stamattina

今天早上

tre giorni fa

三天前

注意!
有一些PARTICIPIO PASSATO 不规则, 大部分属于第二个变位 * ERE

SCRIVERE
VEDERE
ACCENDERE
SPEGNERE
APRIRE
CHIUDERE
BERE
VIVERE
DIRE
FARE
CUOCERE
LEGGERE
METTERE
NASCERE
RIDERE
UCCIDERE
VENIRE
IO MI SONO INNAMORATO ECC


IO SONO ANDATO
TU SEI ANDATO
LUI/LEI E’ ANDATO
NOI SIAMO ANDATI
VOI SIETE ANDATI
LORO SONO ANDATI

IO HO GUARDATO
TU HAI GUARDATO
LUI HA GUARDATO
NOI ABBIAMO GUARDATO

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