Racconti

LA PRESENZA

“Le sedute spiritiche sono un rifugio per chi non sa rinunciare alla presenza di chi ha perso."

— estratto da Allan Kardec, Il libro degli spiriti

“Mamma, si è spenta una candela” disse Evelyn

“Riaccendila, su” le ordinò la mamma tornando al quadrante degli spiriti mentre portava in braccio il necessario per la seduta spiritica. Si mise a sedere sulle ginocchia, strappò dalle mani di Evelyn il fiammifero e accese la candela. “Ci penso io”. Una volta assicuratasi che la fiamma bruciasse bene la posizionò su un angolo del quadrante.

“Ecco, ora attenti a non spegnerla di nuovo”

“Mamma” disse con una voce flebile Dylan “… sei proprio sicura di farla?”

La mamma non rispose. Io rimasi a guardarla. La conoscevo da molti più anni di loro e sapevo tradurre la piega che le si formava sulle labbra in preoccupazione.

“Facciamo presto” disse invece. Continuai a guardarla, stavolta scettico: sarebbe stato tutto inutile. Era così che voleva sbarazzarsi dei nostri problemi? Incolpando un presunto spirito dispettoso e pregarlo di andarsene? Che stai facendo, mamma? Avrei voluto chiederle, tanto però non mi avrebbe ascoltato.

La mamma prese il tomo delle invocazioni, un volume pesante e polveroso ripescato in mansarda, lo aprì e se lo mise sulle gambe.

“Poggiate le mani sul bordo del tavolo”

“Mamma, l’incenso!” urlò d’un tratto Evelyn. Si era dimenticata di accenderlo.

“Evelyn!” sbuffò mamma.

Mi alzai per andare ad accenderlo io.

“Pensaci tu per favore Dylan”

Dylan accese una stecca d’incenso e infilzo la punta su un cuscinetto apposito tra lui e mamma. 

“Se la stanza non è purificata lo spirito non si presenterà…forza ora, poggiate le mani sul tavolo, fate silenzio e concentratevi”. Mamma prese fiato e disse a voce piena:

“Spirito, spirito, sei disposto a parlare con noi”?

L’unico rumore fu il gorgoglio del mio stomaco ma nessuno ci fece caso.

“Spirito” continuò mamma “sei con noi?”

Di nuovo nessun segnale. Cambiai posizione e sotto il peso della gamba ora stesa sul pavimento il legnò scricchiolò. Mia madre si mise in ascolto.

“C’è qualcuno” disse. Non ebbi il coraggio di contraddirla.

“Spirito, non arretrare, mostrati a noi” i denti della mamma erano digrignati, i muscoli tesi.

Sospirai. Intanto la fiamma della candela parve oscillare nelle tenebre. Fu forse uno spiffero, un movimento dell’aria generato da qualche spostamento, forse Dylan si era sporto un po’ in avanti, o Evelyn aveva sbadigliato. Ma la mamma ancora e di nuovo interpretò l’oscillazione come un’ulteriore prova che tra di noi esisteva una presenza.

“Proviamo a fare direttamente una domanda” suggerì Dylan.

La mamma senza dire nulla tenendo lo sguardo fisso sulla tavola fece un cenno col mento.

“Spirito, tu che vedi piani che a noi non è permesso scrutare, quali ragioni ci sono dietro all’incendio del capannone?”

La sua voce riecheggiò nel silenzio. Un raggio di luna cadde nel salotto attraverso il vetro e illuminò di una luce lattiginosa il volto di mamma, prima solo rischiarato dalla tenue candela. Aveva il volto contrito e rigato di due lunghe lacrime.

“Spirito, spirito parla per favore” i singhiozzi presero a crescere di intensità “che cosa provocò l’incendio? Cosa ha portato il capanno a prendere fuoco una notte di novembre? Chi desidera la nostra morte? O… è stato un errore”

Il capannone non distava molto dalla nostra abitazione: lì tenevamo tutti gli strumenti per il raccolto e la seminatura. A me capitava spesso di nascondermi lì, quando litigavo con i miei fratelli, e giocavo per ore da solo anche fino a notte fonda. Andavo lì con delle candele e dei fiammiferi perché non c’era allaccio alla corrente e me ne stavo tra gli attrezzi da lavoro sul pavimento a giocare con la mia fantasia. Mamma si spaventava sempre quando non mi vedeva rientrare la sera e veniva a cercarmi. Entrava con la fronte corrucciata, un po’ per la rabbia, un po’ per la preoccupazione, e poi le bastava guardarmi negli occhi per capire che stavo bene, che ogni tanto allontanarmi dai miei fratelli mi faceva sentire più libero. Evelyn e Dylan qualche volta mi prendevano in giro, vuoi per il naso, un grosso tubero in mezzo al viso, o per la pelle diafana, ereditata dalla mamma. Oppure perché pronunciavo male la S. Mi andavo a nascondere nel bosco, in preda al pianto. Ma avevo sempre il capannone, il mio rifugio, il mio piccolo mondo popolato di ombre.

Quando l’incendio lo ridusse in cenere, mia madre ne fu a sorpresa ancora più costernata di me, a tal punto da giacere a letto per un mese intero. Lasciò i campi a morire, non seminò più semi, non raccolse il biancospino e l’agrifoglio, lasciò le mele pendere dai rami, le mandorle furono mangiate dagli uccelli. Non vivevamo solo di agricoltura, certo, ma era parte importante del nostro sostentamento. Zia, la sorella di mamma, venne a trovarla spesso per aiutarla a prendersi cura di noi e a dare una sistemata ai resti del capannone. Le diceva che non poteva permettersi di lasciarsi morire, che la vita va avanti. Sembrava non capire il suo dolore, del resto era solo un capannone, diceva.

“Pregate insieme a me” disse a un tratto la mamma alzando la voce. “Se preghiamo tutti insieme, lui si presenterà”

Come faceva a sapere che si trattava di un lui? Conosceva in vita lo spirito? Asciugatasi le lacrime col dorso della mano, riprese la litania, col mento verso l’alto, l’aria solenne, le mani strette strette

“Spirito, spirito mio, parlaci, parla con noi, rivelaci cos’è successo quella sera” fece una pausa per prendere fiato “raccontaci la verità che solo tu conosci” la voce le si cominciò a rompere in gola e le lacrime tornarono a scorrere impetuose.“Ti prego, spirito mio...” gridò. La voce le si spezzò, il pianto le dominò il volto.“Ti prego, figlio mio... torna da noi.”A quelle parole rimasi a bocca aperta. Figlio mio? Dylan era lì, con noi. Di che figlio parlava? Poi capii. Fu come immergersi in un lago di ghiaccio.  Mi alzai di scatto e iniziai a urlare più forte che potevo ma nessuno mi sentì. Tentai di afferrare Dylan per le spalle ma le mani non ebbero alcuna presa. Il pianto di mia madre mi si cosparse addosso come una colla velenosa. Iniziai a correre all’impazzata per la stanza. Sbattei contro il mobilio più volte, poi inciampai, caddi.

“E’ qui, è con noi” disse mia madre risollevandosi dal pianto.  “Lo sento… Mortimer, MORTIMER PARLACI”

E io parlai, gridai, mi sentii squarciare la mia notte con grida animalesche. “MI SENTI MAMMA, MI SENTI? MI SENTITEEE, DYLAN, EVELYN”

Mi diressi verso il tavolo, con un colpo scaraventai a terra il quadrante e tutte le candele presero a rotolare da una parte e l’altra della stanza. Si misero tutti a urlare per la paura. Bastò un attimo affinché le fiamme attecchissero. Il fuoco prese a ingigantirsi, accerchiò il tavolo e se lo divorò, poi fece lo stesso col mobilio riversato a terra. Senza sapere cosa fare per fermare l’avanzare delle fiamme cercai nelle tasche. Non appena misi dentro le mani ne tirai fuori solo fiammiferi. Erano gli stessi di quella notte. Caddero per terra, e cadendo vennero accolti dalle fiamme che si fecero più grandi, sempre più minacciose. Foreste di fiammiferi continuarono a scivolarmi via, dalle mani, dalle tasche, non riuscivo a bloccare la proliferazione inspiegabile di quei legnetti mortali, erano ovunque, mi si cosparsero intorno come vetri infuocati. Le fiamme divennero guardie di quella prigione di fuoco che avevo creato. I miei fratelli cercarono la fuga, mentre la mamma si diresse verso il bagno per procurarsi dell’acqua. Ma non servì a nulla: Lingue di fuoco si sollevarono in muri incandescenti. Impedirono ogni entrata e ogni uscita. Io rimasi immobile, impalato, con le mani aperte piene di fiammiferi mentre le urla di dolore di mia madre e i miei fratelli impregnarono la stanza insieme al fuoco. Tutto bruciò, il quadrante e le candele, il divano dove mamma amava riposare e la cucina che popolavamo a cena, quando eravamo tutti insieme; bruciarono i quadri e le cornici, le foto appese ai muri, i nostri disegni che tappezzavano la casa. Bruciò il tetto che teneva in piedi il nostro mondo, facendo crollare le tegole che lo proteggevano. Tutto fu cenere. Davanti a me, ciò che restava della mia famiglia. Almeno, pensai, non ero più solo.

Il rituale

                                                                                    “Muta metu terram genibus summissa petebat”

                                                                                                                         — Lucrezio, De Rerum Natura, II, 371

Era il ventunesimo giorno del sesto mese, e il sole si sollevava lento, pronto a toccare il culmine del suo arco celeste. Io mi svegliai quando i suoi primi raggi mi chiazzarono il viso di luce. Con le palpebre pesanti e il sonno ancora addosso, mi alzai e andai a lavarmi la faccia con l’acqua nel catino, poi uscii fuori a raccogliere uova fresche per riempirmi lo stomaco. Era un giorno importante, quello: era il giorno del Rituale. Il mio villaggio si riuniva ogni anno il ventunesimo giorno del sesto mese, pronto ad accogliere nuova vita. Soltanto chi avesse compiuto i diciotto anni era ammesso al Rituale. Ricordo bene tutti gli anni prima di quello: me ne stavo tra le mie quattro mura in attesa che i sacerdoti minori venissero a prelevarmi, insieme ai miei coetanei. Ci avrebbero poi portato nel folto del bosco dove non avremmo visto né sentito nulla. Avremmo solo atteso in silenzio che il rituale avesse luogo, sotto gli occhi vigili dei controllori, messi lì a farci da guardia. All’imbrunire, una volta terminato il rituale, saremmo tornati tutti al villaggio, nelle nostre case di paglia. Quell’anno, però, sarebbe stato diverso. Quell’anno avrei finalmente preso parte anche io al rito, insieme a tutti i miei coetanei. Avrei finalmente saputo come si svolgeva, avrei finalmente visto e capito come si assurge alla vita. Noi del villaggio siamo nati tutti lo stesso giorno, proprio il ventunesimo del sesto mese. È questo lo scopo del rituale: darci la vita. Ogni anno, prima che il sole inizi a muoversi all’indietro, il nostro villaggio accoglie vita nuova. Si estrae a sorte un uomo maggiorenne, una sola anima beata, e si manda sposo alla Fessura. Chiamiamo così la nostra divinità, la profonda spaccatura lungo il dorso del monte. La Fessura. Non sappiamo cosa ci sia oltre, dove conduca quella lunga feritoia, sempre ammesso che conduca da qualche parte. Non sappiamo nemmeno da dove derivi; se sia l’orma possente di una divinità maggiore, il risultato di un fulmine schiantatosi contro la roccia, un portale che colleghi gli umani ad altri mondi. Sappiamo solo che, alla fine del sodalizio, la fessura partorisce nuovi umani, tali e quali a noi. Speravo di essere scelto io, quell’anno. Sarei divenuto l’onore del mio clan per sempre, avrei permesso alla nostra stirpe di perpetuare. E sarei stato ricordato.

 Ambivamo tutti a ricoprire di onori il nostro clan. Era la nostra unica ragione di vita. Ma c’era qualcos’altro a cui ambivo ancora di più: che a sposare la fessura fossimo sia io che Marek, insieme. Il rituale non prevedeva due mariti, e infatti secondo i registri conservati nel vestibolo sacro, ciò non era mai accaduto. Le speranze che nutrivo erano perciò ben più grandi delle possibilità che quelle potessero avverarsi; eppure io e lui non facevamo che fantasticare di quanto sarebbe stato bello raccogliere a quattro mani quell’ambita gloria. Sarebbe stato il coronamento di un’esistenza. Marek era qualcosa di più di un fratello. Non avrei saputo rintracciare un momento che noi due non avevamo vissuto insieme. Il giorno della nostra nascita portava già scritto l’intrecciarsi indistricabile delle nostre esistenze: siamo usciti per ultimi dalla fessura, e siamo usciti insieme, quando ormai la folla, sicura che il Parto Sacro fosse terminato, si stava diradando e spargendo come acque piovane che confluiscano per scarichi diversi. Venimmo fuori così vicini, così stretti l’uno all’altro, che gli abitanti, raccontando di quel giorno, erano pronti a giurare che ci tenessimo per mano. Fummo poi divisi e affidati a due padri diversi, appartenenti allo stesso clan, il più prestigioso del nostro villaggio. Questo ci ha permesso di condividere ogni alba e ogni tramonto, ogni giornata passata a pascolare il bestiame, a intessere pelli per l’inverno e a studiare i canti del villaggio, ogni notte ravvivata dal ticchettare delle stelle sullo stesso lembo di letto, a raccontarci quegli attimi di vita passati separati, che nello scambio di bocca in bocca, tornavano ad unirsi e ad appartenere ad entrambi.

Marek quel giorno si era svegliato tardi. Mi raggiunse sul prato dove ero disteso, sotto il Frassino, vicino al nostro orto, mentre ripassavo pigramente la canzone del rituale col flauto.

“La stoni ancora, Uhri” disse, canzonandomi, e si avvicinò a me.

“Voglio proprio vedere se sai fare di meglio” risposi io restituendogli lo stesso ghigno beffardo. Marek si mise a sedere vicino a me, prese il flauto e iniziò a suonare. La melodia gli uscì limpida e cristallina come il cielo di quel mese assolato. Mi passò lo strumento e mi esortò a riprovarci. Questa volta mi uscì meglio, ma niente di lontanamente paragonabile al suo risultato.  “Sbagli qui” disse Marek, aiutandomi a posizionare le dita sul foro giusto. “Marek” iniziai, abbassando il flauto “come ti senti per oggi?” “Per il rituale, vuoi dire?” teneva gli occhi bassi. Marek faceva sempre così quando c’era da affrontare discorsi difficili. Benché tra i due fosse lui quello impavido, quello che difendeva il bestiame dall’attacco dei lupi e usciva in piena tempesta a ricoprire con un telo di canapa le piantagioni, quando si trattava delle proprie emozioni, Marek era restio a condividerle. Forse anche per paura che si scorgessero, al di là della corazza, i suoi lati fragili. Con me poteva anche fingere, ma io sapevo cosa gli agitava il cuore.

“… se non ci scegliesse entrambi?”

“Allora” disse lui “preferisco non ci scelga affatto”

“E cosa ne sarà poi di noi? Resteremmo qui, senza onore, senza gloria, bloccati nel lento progredire di una vita tutta uguale. Gli stessi mesi, le stesse stagioni, i fiori che sbocciano, avvizziscono, si spengono e tornano al verde, poi da capo… il ciclo imperituro delle cose. Peccato che per noi la fine sia già scritta.”

“Uhri, hai mai pensato…” e si fermò, con gli occhi agganciati al vuoto.

“Cosa?”

“Che potremmo andarcene via…”

“Dopo il rituale?” “Prima, dopo, quando ti pare” “E dove andremmo” “Non lo so, Uhri, non lo so, sto solo pensando… è che il pensiero di non averti accanto, se la Fessura sposasse me o te, mi tiene sveglio le notti. Speravo non arrivasse questo giorno. Ed è buffo, se pensi a quanto abbiamo sognato di vedere e vivere il rituale “Lo abbiamo fatto sempre con la speranza di poter essere scelti entrambi” “Hai parlato col sacerdote?” “Sì… ha controllato di nuovo tutte le scritture, tutti i documenti, persino le annotazioni, i commenti a posteriori, nulla. Nulla di nulla.”

Marek si sdraiò sull’erba che iniziava a ingiallirsi per il calore del sole. Fissava il cielo, apriva con lo sguardo altri confini, scavalcava le recinzioni che ci tenevano dentro al villaggio; non le palizzate in legno che stabilivano cosa appartenesse a noi e cosa agli altri popoli, ma le recinzioni dei doveri. Aveva ragione, avevamo trascorso una vita intera a desiderare che questo giorno arrivasse, ma solo troppo tardi ci eravamo resi conto che il rituale avrebbe potuto significare la nostra separazione. Non sapevamo cosa succedesse durante il sodalizio. Si raccontava che lo sposo scelto si univa alla Madre Fessura e, dopo aver dato alla luce la prole, partiva per un lungo viaggio, un viaggio dal quale avrebbe potuto far ritorno, se avesse voluto; ma talmente immensa è la felicità che lo accoglie, che nessuno si era mai sognato di ritornare, stando ai sacerdoti. “Nessuno è mai tornato, chi glielo ha detto che sono felici lassù” diceva sempre Marek, a cui piaceva mettere in discussione regole e saperi. “Io per te tornerei. A costo di disperdere qualsiasi felicità.” Gli dicevo, perché tanto, distanti, felici non lo saremmo stati mai. Entrambi desideravamo partecipare al rituale, per ragioni diverse. A me spingeva l’orgoglio, a lui una mera curiosità. A Marek di inorgoglire il clan non interessava affatto. Inoltre, aveva sempre sospettato che il rituale nascondesse qualcosa di marcio. “Altrimenti perché non farci partecipare?” chiedeva. Facevo spallucce. Qualsiasi cosa fosse, l’avrei accolta.

Ora il mezzogiorno pareva infuocato, e i raggi pendevano dal cielo come rivoli di lava.

Noi due ce ne stavamo ancora sotto l’ombra tiepida del faggio, con le nostre pelli nude a contatto, mentre le cicale accompagnavano la calura col loro canto. Ogni tanto chiazze di luce penetravano attraverso il fogliame. Illuminavano le labbra di Marek, poi ciuffi di capelli, la peluria che gli fuoriusciva dalla camicia di lino. Aveva gli occhi chiusi, sonnecchiava placido, come se il sonno fosse l’unica dimensione in cui poter acciuffare un po’ di pace dai pensieri. Io lo guardavo di tanto in tanto. Mi perdevo nell’idea di quanto fossi stato fortunato ad averlo avuto in dono nella mia vita.  E poi nel timore – o forse certezza - di perderlo, che quello fosse l’ultimo giorno in cui avrei potuto guardarlo dormire, come si osserva un tozzo di legno nel camino scoppiettare nella notte.

Marek riemerse dal breve tepore che lo aveva accolto, girò la testa verso di me e mi sorrise. Si era accorto che lo stavo guardando. L’impulso di entrambi fu lo stesso, e fu irrefrenabile: le nostre bocche corsero l’una contro l’altra, in un impeto che si risolse, al primo contatto, in una dolcezza che ricordava le bambagie del cotone nel campo di fronte.

Il suono di una tromba invase l’aria. Stavano iniziando i preparativi. Fu un suono lungo, continuato, così duraturo che persino la sua eco faticava a staccarsi dall’aria, tanto quanto faticammo io e Marek a slegarci le lingue.

“Uhri” disse staccandosi da me “va’ ai preparativi”

“Tu non vieni?” “Ho avuto un’idea, so come possiamo fuggire.” “Ma dimmi almeno di cosa si tratta” “No, è meglio che tu non sappia nulla. Ho la situazione sotto controllo, però devi fidarti di me”. Mai un momento della mia vita era trascorso senza riporre fede in lui. Annuii senza chiedere altro e gli lasciai la mano mentre con gli occhi rubai un’altra volta i contorni del suo viso.

Raggiunsi di corsa la piazza del villaggio. Il sole era una palla di fuoco nel mezzo del blu. Al centro il sommo sacerdote disponeva gli ordini.

“Le pietre sacre devono coprire l’intero perimetro della piazza. Qui invece” indicando il breve percorso che conduceva alla Fessura “vanno posizionate in modo da creare una strada” si rivolse poi ai suoi aiutanti “dite agli abitanti di preparare tutto il necessario: le tele di lana, i colori per dipingere le tele e il fuoco”. Fece qualche passo verso le guardie alle quali venne ordinato, come ogni anno, di prendersi cura dei minorenni. Il vice-sacerdote conferì al capo delle guardie un documento con tutti i nomi dei ragazzi sotto i diciotto anni. Il sommo sacerdote poi guadagnò il centro della piazza nella quale si ergeva una teca. Custodiva il testo sacro e gli strumenti del Rituale.

“Aprirò la sacra teca quando il sole toccherà la parte alta della Fessura.” Disse con voce solenne. Poi fece una pausa lunga e piena, e riprese. “Chi prenderà parte al rituale pomeridiano dovrà presentarsi qui all’ultimo suono di tromba, se non lo farà verrà punito per oltraggio alla Fessura con un’esecuzione in piazza”. Il vice sacerdote gli consegnò in mano un rotolo. “Come ogni anno, al suono della tromba, inizierò a chiamarvi uno ad uno, in attesa che la Fessura decida chi prendere come suo sposo.” Dopo aver detto ciò, ci diede le spalle e si inginocchiò, prostrandosi al cospetto della Fessura e iniziò una litania sofferta:

“aaaah mmmmmmh yeeeeeeoooohhhh

Sacra anima accogli in te l’eletto

Eeeeeh  nnnnnnnnh  ziiiiiiuuuuuuuuh

Facci prosperare nel sole

Ooooooh  bbbbbbbbbh  ruuuuooooooh

Facci morire sì ma nella luce”

Non era la prima volta che recitavo la Sacra Litania, eppure per la prima volta ebbi un brivido lungo la schiena. Ripensai a quello che diceva Marek, che sul Rituale aveva sempre nutrito grossi dubbi. Mi voltai per vedere se era arrivato. Nessuna traccia. Intanto mio padre, spuntato tra la folla, mi raggiunse e richiamò la mia attenzione a quanto stava accadendo. Il sacro sacerdote si versò sul capo un sacro unguento realizzato con budella di toro e liquido seminale di ariete stagionati.  Questa fase di apertura del rituale era aperta a tutti, sebbene molti padri proibissero ai figli di parteciparvi, temendo di rovinar loro la sorpresa o che la giovane età non permettesse di godere della sacralità del momento. Il Sacerdote si rialzò, unto e luccicante. Con un cenno ordinò alle guardie e ai sacerdoti minori di prelevare i minorenni e portarli nel bosco. Stava iniziando la fase che non avevo mai visto. Non era obbligatorio parteciparvi, sebbene fosse caldamente consigliato farlo, mi spiegò mio padre. Io scelsi di rimanere.

 Il sacerdote lanciò le braccia in alto aprendo le mani quasi come a voler cogliere il sole. Intonò una preghiera gutturale mai sentita, poi spalancò la bocca e il suono si fece rugoso, come uscito da una caverna. Il silenzio tutt’intorno era spettrale. Il sole era a picco, ma pareva notte.

“Ora spogliamoci delle nostre vesti” disse solenne

“LANCIATELE” urlò “LANCIATELE NEL FUOCO SACRO”

Di fronte alla Fessura il vice Sacerdote aveva posto una grande vasca riempita di rami secchi che iniziarono a prendere fuoco. Gli ordini del sacerdote erano chiari: bisogna spogliarsi. Rimanemmo tutti nudi e lanciammo le nostre vesti nel fuoco. Erano decine, decine di decine di vesti, ammucchiate una sopra l’altra, eppure presero fuoco. La fiamma bruciava lenta ma inesorabile, avviluppava nelle sue fauci le estremità delle maniche per poi risalire e lasciare solo la cenere.

“Ora sfreghiamo il sesso contro la terra nuda. Corpi nudi sulla terra nuda.

Che fuoriesca il seme. Che penetri l’ossatura profonda della nostra Madre”

Gli adulti si gettarono a terra a pancia in sotto e cominciarono a sfregare il pene contro il suolo. Una massa di vermi che si dimenava sul terreno. Me ne stetti fermo per l’imbarazzo.

“A TERRA”

Ordinò il sacerdote. Così mi unii al coro di amplessi che gli abitanti del villaggio stavano avendo con la madre terra. Sfregavo e sfregavo il mio pene, con gli occhi sempre chiusi per non rischiare di vedere mio padre o altri del mio clan intenti nello stesso atto. Continuai a sfregare per tre minuti interi, mentre l’aria si riempiva di orgasmi sotto il sole cocente. Sfregai e sfregai. Iniziò quasi a piacermi la sensazione della terra sull’asta. Inarcai leggermente la schiena e alzai i glutei per dare maggiore spazio all’erezione. Poi pensai a Marek. Ripensai al nostro bacio, alle lingue che non si volevano staccare, a quanto avrei desiderato toccarlo sotto i pantaloni. La fantasia mi fece preda e venni. Proruppi in aria come il fragore di un tuono. Tanto grande fu l’eccitazione che tutti si volsero a guardarmi. Tornai alla realtà. Gli occhi erano rossi di sforzo e avevo il fiatone. Il Sacro Sacerdote era estasiato per lo stupore. Si fece largo tra gli altri e mi venne vicino. Mi fece cenno di rialzarmi e con tre dita della mano soppesò prima lo scroto, poi il pene; pulì con cura la cappella, ormai pronta a ritirarsi sotto la pelle, e assaporò il mio sperma leccandosi le dita.

“Tu rendi onore al tuo clan, Uhri. Che la tua estasi possa condurti sposo alla Fessura”

Mio padre mi guardò fiero come mai prima d’allora. Sentii il mio cuore gonfiarsi di orgoglio. I membri del mio clan mi rivolsero sorrisi e cenni di apprezzamento, mentre gli altri saettavano invidia.

“Ora leviamoci in preghiera”

Arussef o

Et rep omerediccu al

Arup amina’l icacidni

Arret al azzilitref ocras amreps

La ripetemmo tre volte. Infine il Sacerdote si inchinò davanti al fuoco che ancora bruciava indefesso; una volta rialzatosi, mise una mano nella tasca e tirò fuori una chiave. La purificò tra le fiamme del fuoco Sacro.

“Quando il sole inizierà a illuminare la parte superiore della fessura, apriremo la teca.

Ora andate, andate col sole, col fuoco, tornate nelle vostre case e rifocillatevi, raccogliete le energie per quanto sta per accadere”

Ci disperdemmo ciascuno verso la direzione di casa. Io ancora nudo mi immersi nel bosco in cerca di Marek. Non si era mai fatto vivo durante la prima parte del Rituale. Non era una buona idea non presentarsi, anche se la partecipazione non era obbligatoria. E Marek lo sapeva, eccome se lo sapeva. Ero preoccupato per lui. E se gli fosse successo qualcosa?

D’improvviso una figura saltò dalle frasche e mi buttò a terra.

“Torniamo verso casa” disse. Era Marek. Si mise a correre a perdifiato e io lo seguii senza nemmeno sapere perché. Eravamo schegge di luce tra i sentieri della foresta. Arrivati sotto il frassino, Marek si tolse i vestiti e li gettò nel pozzo.

“Che ti è preso Marek?”

“Uhri, ho risolto per oggi” disse col fiato spezzato.

“Di che parli?” Mi ero già dimenticato del suo piano di fuga. Credevo quasi stesse scherzando. Avrei dovuto saperlo: Marek non scherzava mai.

“Come di che parlo, della nostra fuga Uhri, te lo sei già scordato?”

“Ma Marek…”

“Stammi a sentire, ho ricavato un carro.”

“Un carro, e dove lo hai preso?”

“Il pastore, vicino alla piazza, va be’, adesso non importa, stammi a sentire, ci sarà l’appello per il rituale, giusto?”

“Sì, quando il sole…”

“Illuminerà la parte superiore della fessura”

“perché sei così agitato Marek, che hai?”

“Uhri, se ti sceglieranno noi non ci vedremo mai più. Saremo divisi per sempre” mi guardò negli occhi con un’intensità mai vista prima.

“Anche se sceglieranno te…”

“Non potranno scegliermi, io me ne andrò.”

“Che vuol dire “me ne andrò” Dove andrai?”

“Via, non lo so, lontano da qui. Uhri, il rituale… non posso spiegarti ora, ma è qualcosa di… agghiacciante e… tremendo. Devi venire con me. Come abbiamo detto oggi. Ora lo so più che mai.” Ero lì lì per raccontargli cosa era successo durante la prima fase, del fuoco, dei vestiti bruciati, dell’inseminazione della terra, ma non me ne diede il tempo.

“Noi ci meritiamo ben altro, di vivere sereni, felici, e di farlo… e di farlo insieme, Uhri.” Dicendolo mi prese le mani, e il tono si fece più calmo.

“E se… se veramente ci scegliesse entrambi…? del resto, voglio dire, siamo nati  insieme…”

“Ancora con questa storia, Uhri! Non ci sceglierà tutti e due… e io… io … io non voglio morire” gli uscì dalla bocca a fatica.

“Morire? In che senso morire?”

“Ho… ho trovato delle scritture…nell’ufficio del sacerdote… adesso non è il momento, non c’è tempo, Uhri, ti prego, stammi a sentire, vediamoci prima dell’appello qui. Ti spiegherò tutto, giuro.”

“Prima dell’appello? Sei matto? Ci verranno a cercare”

“Non se ne accorgerà nessuno”

“Marek se ne accorgeranno tutti, per favore, ascoltami tu. Se vogliamo farlo, dobbiamo farlo bene, non dobbiamo dare nell’occhio. Vediamoci qui subito dopo l’appello.”

“Uhri…” disse il mio nome come una preghiera. Gli occhi suoi dentro gli occhi miei. Noi nudi sotto il frassino con le cicale a suonare in sottofondo. “Uhri, promettimi che verrai”.

“Te lo prometto, Marek, io… io non posso… non posso stare senza di te…”

“No Uhri, io non posso stare senza di te… quanto a te, ho paura che sul piatto della bilancia io non sia il peso più importante.”

Non risposi. Non riuscii a pensare a quanto aveva detto. Avevo paura che avesse ragione lui. Ma Marek preferiva le azioni ai pensieri, e sapeva addirittura come spegnere i miei. Si avvicinò e mi baciò. Da quel bacio ne nacquero altri e poi altri ancora. Finimmo poi sotto il frassino a fare quello che il sole faceva con la natura in quel primo abbacinante giorno d’estate. Era quello l’amore? Non lo so, non se ne parlava molto nel villaggio. Mio padre parlava di ebrezza o di adorazione, riferendosi alla Fessura. Ma l’amore? L’amore ce lo dava la Fessura producendo la prole ogni anno, dicevano i Sacerdoti. E allora cos’era questa cosa tra me e Marek? Cos’è che ci spingeva a voler l’uno il bene dell’altro? Cos’era che ci portava a baciarci come stavamo facendo ora, nudi sulla stuoia come quando eravamo appena due neonati? Marek mi guardò e indovinò i miei pensieri

“Le definizioni non ordinano la realtà, la tagliano”

Il sole avviò la sua corsa verso l’orizzonte. L’ora era vicina.

“Io non verrò all’appello” disse Marek.

“Marek…” feci per parlare, ma lui mi fermò subito.

“Non potrai fare niente per farmi cambiare idea. Ti aspetterò qui”

“Verranno a cercarti”

“Non mi troveranno.”

“Ma…”

“Devi fidarti di me, Uhri.”

Lo baciai e andai a prepararmi per il rituale. Mi lavai nell’acqua che il giorno prima il Sacerdote aveva consacrato per noi novizi. Cauterizzai le impurità del mio corpo con un fuoco accesso da rametti consacrati e ricoperti di umori di toro. Cosparsi l’unguento di terra e sangue sul corpo e poi indossai le scare vesti che mio padre aveva tessuto e cucito per me. Diedi un’ultima occhiata alla nostra casa, la capanna forgiata dai sacrifici del nostro clan. Quanti erano andati sposi alla Fessura? Tanti. Quasi ogni anno. Mi venne in mente cosa aveva detto il Sacerdote “Renderai onore al tuo clan”. Cos’altro poteva sperare un uomo? Fare la ricchezza della mia famiglia, dei miei cari. Di Marek. No, Marek no. Non l’avrei reso felice se fossi andato sposo alla Fessura. I pensieri mi fecero compagnia sul sentiero verso la piazza.

Il rituale stava avendo inizio. Il sacerdote guadagnò il centro, intorno a noi. Il sole bagnò di luce la Fessura, ora più che mai un ghigno di sangue che correva lungo la parete rocciosa. Regnava un silenzio inalterabile, maestoso come l’apertura alare di un uccello leggendario. Il sacerdote aprì le braccia in segno di benvenuto, si fece consegnare il registro dei nomi e iniziò a chiamarci uno ad uno.

“Ashalome

Avrendit

Bukko

Carcat

Crishm

Eley

Eunm

Estantk

Ogni sillaba era un tuono che si infrangeva sul mio cuore. Il nome di Marek si faceva sempre più vicino.

Hiju

Ijkil

Iorum

Iussunt

Lcare

“Fa’ che lo salti, ti prego”. Non so nemmeno io chi stessi implorando.

Mafund

MAREK

“Sua santità, Marek del Clan Ghorban si è macchiato di furto oggi stesso. L’atto è stato compiuto ai danni del contadino Nomin.

“Che venga messo agli atti: A Marek di Ghorban è proibita la partecipazione al rituale, e pertanto verrà punito con la morte in pubblica piazza al termine del rituale stesso.”

Il tempo si fermò. Marek che correva nel bosco, il carro… ha rubato il carro per fuggire. Il ventunesimo giorno del sesto mese E ogni atto illecito compiuto oggi conduce a morte certa.

Uhri

Venne chiamato il mio nome ma non lo sentii. Mio padre mi diede un colpo sui fianchi. Io alzai il viso cercando lo sguardo del sacerdote che mi riconobbe e abbozzò un sorriso.

Il braccio di mio padre mi cingeva stretto; lo vedevo colmo di gioia, con le labbra piegate all’insù.

“Ti sceglieranno, Uhri, lo sento. Sei l’orgoglio del nostro clan. Soprattutto, sei il mio orgoglio.” Non mi aveva mai parlato così prima d’ora. Per la prima volta mio padre si mostrò orgoglioso di me, fiducioso che avrei apportato benessere al nostro clan.

Intanto però, nel folto del bosco, Marek mi stava aspettando sul carro, pronto a riniziare insieme chissà dove, lontano dal villaggio, dalla pena di morte che gli gravava sul capo, dal suo Rituale, dagli onori e la gloria che ne derivano, lontano dalla Fessura.

No, non potevo lasciare mio padre così, deluderlo proprio quando la fiducia che riponeva in me era così tanta. E non potevo nemmeno abbandonare Marek. Non sapevo come risolvere la tensione che avvertivo dentro, che mi dilaniava e mi tirava da due parti opposte. I pensieri si fecero vorticosi, sempre più nebbiosi, delle spirali mute di luce dove sentivo di annegare. Il tempo intanto gocciolava imperterrito. A un tratto la Fessura parve illuminarsi. Non so dire se sia stata un’allucinazione partorita dalla mia mente o se sia accaduto davvero. Gli altri parvero non accorgersene, o reputarlo assolutamente normale.

Si tinse di sangue e dal buio remoto della spelonca si sentì un ruggito. Tremai. Il braccio di mio padre era ancora stretto al mio fianco. La luce del sole cosparse d’oro la fessura, che reagì con uno sbuffo di fumo.

“E’ ora” disse il sacerdote.

Prese la chiave e aprì la teca. Prelevò il tomo che era custodito e lo aprì con fare solenne. Prese un grande respiro, sollevo le braccia al sole e si pose tra i raggi e la spelonca.

Dovevo andarmene, non c’era più tempo, ero rimasto lì fin troppo. Scansai il braccio di mio padre e feci per voltarmi, indugiai, indugiai troppo, per paura che mio padre capisse che stavo scappando, per timore che mi vedesse un altro del nostro clan, o del clan nemico, o che mi notasse il sacerdote.

Uhri!

Il nome rimbombò per tutta la piazza. Il sacerdote mi guardò negli occhi desideroso di accogliermi. Se non avessi indugiato ora starei correndo nel bosco da Marek con le guardie alle calcagna. Il cuore mi scoppiava in petto: ero stato scelto. Si levò un boato festoso dalla folla in piazza, i membri del mio clan presero a battere le mani a terra, in segno di vittoria, mentre venivo stritolato dalla felicità di mio padre. Il rituale mutò in una grande festa. Una grande festa in mio onore, con la mia famiglia, il mio clan, tutto il villaggio. Senza Marek.

Venni scortato da mio padre fino al centro della piazza, dove il sacerdote mi prese il braccio e lo alzò al cielo, come avessi vinto una gara. Grida festose, boati di gioia, l’aria era satura di un brio mai visto prima. Gli abitanti presero a togliersi i vestiti, a farli ruotare in aria, mentre saltavano in preda all’eccitamento.  Il grande sacerdote prelevò dalla teca un pezzo di stoffa pregiata e mi ci bendò gli occhi.

“Al prescelto non è concesso di vedere”

Mio padre mi scortò di nuovo fino al piccolo sentiero che conduceva alla Fessura, mentre tutti i sacerdoti intorno a me presero a cantare.

Sentii mio padre inginocchiarsi e cingermi con le braccia le ginocchia. Aveva il volto rigato di lacrime di gioia e mi bagnò la pelle. Mormorò qualcosa, non sentii bene tra i singhiozzi e il pianto. Gli venne ordinato di tornare tra la folla. Nel frattempo venni spogliato delle mie vesti sacre che il Sacerdote ordinò venissero gettate nella fessura.

Poi il silenzio improvvisamente tornò a regnare. Il brio si spense e la festa tornò al rigore che il rituale imponeva. Fu forse per un gesto del Sacerdote, o forse perché l’atmosfera lo richiedeva. Sentii il sole bagnarmi di luce e la Fessura desiderarmi.

Rimasi in attesa. Ero divorato dal silenzio.

Mi parve di sentire un clangore, quasi impercettibile. Poi i passi di un sacerdote verso di me. Dalla benda riuscivo a cogliere solo le ombre delle cose. Ma uno scintillio mi rapì lo sguardo, e quando sentii il sacerdote inginocchiarsi di fronte a me e poi il contatto del metallo freddo contro la pelle, vicino l’inguine, capii. Ed era già troppo tardi. Mi si rigò il volto di lacrime, e non di gioia. Pensai a Marek. Intensamente. E fu un errore, perché così la recisione fu ancora più dolorosa. La solennità del rituale venne squarciata dalle mie urla di dolore. Mi accasciai in ginocchio, piangendo e urlando. Poi tornai muto, muto di un terrore gelido, nonostante il calore del sole che mi salutava per l’ultima volta. Sentii il sangue bagnarmi le ginocchia e scorrere in rivoli tutt’intorno a me. Il sacerdote prese la parte di me che m’aveva strappato e invocò la bontà della Fessura. Sentivo il rumore della lama su quel pezzo di carne che mi apparteneva. Lo stava affettando per distribuirlo. Sentii i sacerdoti masticare forte. Si avvicinò qualcuno, forse una guardia stavolta, non riconobbi il bianco delle vesti sacre. Mi piegò il collo verso terra. Poi prese qualcosa in mano, non la lama di prima, qualcosa di grande. Glielo sentii agitare nel vuoto, spostare l’aria e riflettere fasci di luce. Poi un grido, non il mio. Una voce straziata s’apri strada nella folla. Riconoscevo quella voce, anche se deformata dalla sofferenza. Era Marek. Era tornato per me. Urlava qualcosa. Il dolore mi tappava le orecchie.  Lo sentii col cuore, era il mio nome. Urlava il mio nome. Uhri, gridava, Uhri salvati. Ma era troppo tardi Marek, era troppo tardi per entrambi. Suono di una baraonda, di pugni e calci che volavano. Gli ordini del sacerdote che saettavano da una parte all’altra della piazza, io che urlavo a Marek di andarsene, che lo avrebbero ucciso, che non c’era più speranza per me. Lo presero, lo legarono, lo trascinarono fino alla Fessura. In un attimo mi era accanto. La mano sua, bloccata dalle funi, cercò la mia libera ma imprigionata dal terrore. “Uhri” sussurrò, e fu l’ultima cosa che sentii prima che la mia testa rotolò dentro la fessura spinta dai calci dei Sacerdoti. E ce ne andammo per sempre, senza mai far ritorno, come ne eravamo venuti: insieme..

Le sigarette

  • Per Yan fumare era come respirare, per quanto possa suonare ironico. E per la cronaca, non si chiamava affatto Yan; quello era il nomignolo che i suoi nuovi colleghi, lì, nel paese in cui si era trasferita, le avevano appioppato. Nella loro lingua Yan voleva proprio dire sigaretta, o fumo, a seconda dell’uso, perché quello faceva la donna tutto il giorno tutti i giorni, a ogni momento, all’aperto e, di nascosto, al chiuso: fumare.  Quando dischiudeva le labbra per parlare si poteva scorgere un rivolo di fumo uscirle dalla bocca, come se da qualche parte tra i denti e le guance nascondesse una sacca di tabacco, accumulato negli anni, di cui fare uso nei pochi minuti di astinenza che trascorreva. Le tasche delle sue giacche, - e parliamo di giacche di elevata fattura e di altrettanto elevato prezzo - traboccavano di rimasugli di sigarette e pacchetti vuoti, con l’apertura fatta a pezzi, chiaro segnale di quello che accadeva quando rimaneva senza fumare per più di mezz’ora. Qualcuno dei suoi amanti giurava di averla vista fumare addirittura sotto la doccia. Per non parlare delle volte che, a cavalcioni su uno di loro, nei momenti d’intimità, capitava che dalla bocca le cadesse l’intera sigaretta accesa, dritta sul petto villoso dell’uomo che con un colpo di fianchi le aveva fatto spalancare le labbra per il piacere. Neanche a dirlo, tutti finivano per mollarla. Poco male, pensava Yan, meglio una sigaretta in più che un uomo. Pensiero che poi, più o meno inconsciamente, andava a infestare ogni aspetto della sua vita: meglio una sigaretta in più che tutto il resto. Quelle volute grigie di fumo che alzandosi in spirali andavano a diffondersi tutto intorno al suo bel viso levigato erano il suo ossigeno.

      Un giorno, nel tardo pomeriggio, uscendo dall’ufficio, Yan frugò nella borsa con l’intenzione di portarsi la sigaretta in bocca e accenderla non appena si fosse trovata all’aperto. Dannazione!, doveva aver lasciato il pacchetto sulla scrivania. Tornò al piano di sopra di corsa ma non trovò alcunché alla sua postazione; cercò nel cestino – magari sono cadute, pensò – senza trovare nient’altro che carta straccia. Ancora lucida nonostante un iniziale tremolio che denotava l’ingolfarsi dell’agitazione, ricordò, o pensò di ricordare, di aver lasciato un paio di sigarette di scorta in una tasca interna dello zaino. Ricordava male perché anche lì non c’era nulla, se non vecchi scontrini e due matite spuntate. Poi le venne in mente “le tasche della giacca!” Rovesciò tutto il contenuto delle tasche sul tavolo da lavoro, ma nulla, non aveva altri pacchetti. Niente panico, si disse, le andrò a comprare. Uscì dal palazzo dell’ufficio – stavolta saettando, cavalcando il panico che le stava contorcendo il viso – e si fiondò al primo tabaccaio. Chiuso. Era così tardi? Non se ne era nemmeno accorta. Quanto tempo era stata in ufficio a cercare le scorte? Non importava, non c’era tempo da perdere in riflessioni, doveva fumare. Per fortuna, c’era un distributore fuori dal tabaccaio. Prese la sua tessera sanitaria, la infilò nella fessura e attese che lo schermo le desse gli ordini. 17 yuan per un pacchetto di Marlboro. Non fu affatto una sorpresa quando aprendo il portafogli non trovò nemmeno una banconota perché lì pagava solo col bancomat. Si mise a contare le poche monete rimaste: uno yuan, tre yuan e mezzo, cinque, otto yuan e dieci yuan, undici, sedici. Basta. Non aveva altre monete. Come aveva fatto per le sigarette, così fece per quell’unico solo yuan mancante: riversò la borsa per terra, sul marciapiede, di fronte al distributore. I passanti guardandola pensavano avesse perso qualcosa di vitale tanta era la foga e la disperazione con cui cercava. E frugava, rimestava gli oggetti, rovistava, a tratti imprecava. Addirittura, l’acconciatura che la mattina era tanto ben raccolta sulla sua nuca, ora pendeva in ciocche disordinate che le finivano sulla schiena, e le calze non avevano sopportato l’urto con l’asfalto ruvido dove Yan si era inginocchiata. A niente però servì quella disperata ricerca. Nessuna moneta era rimasta sul fondo della borsa, al massimo un tappo di bottiglia che per un momento lei aveva scambiato per lo yuan mancante, niente più di quello. Allora, le venne in mente di fermare qualche passante, qualcuno gliel’avrebbe dato uno yuan, un solo yuan e che vuoi che sia, sì, qualcuno si sarebbe fermato. Uno, due, tre passanti, nessuno mostrò interesse. Solo il quarto si fermò, un bel giovane, può prestarmi un euro, per favore? Sarà stata la poca familiarità con la lingua di quel lontano popolo, o magari sarà stato quel difetto di pronuncia che le impediva di articolare bene i suoni, ma il ragazzo non capì nulla. Le si avvicinò e le chiese di ripetere. Yan abbaiò un suono disarticolato, lui di nuovo non capì. Il volto di Yan si fece più contrito, più rigido, gli occhi le tremavano negli incavi, perché non mi capisce? Ripeté quella parola, col suo strano accento, con quella pronuncia vaga, appena abbozzata. Di nuovo, niente. Yan la ripeté, stavolta prima alzando la voce, poi urlando. E quando si mise a urlare, con le mani nei capelli, il ragazzo le si avvicinò ancora di più, poi con un cenno fece accorrere dall’altro lato della strada altri passanti che lo aiutassero a capire di cosa avesse bisogno quella strana ragazza. Lei piangeva, aveva gli occhi ridotti a due laghi di brace, e ripeteva quella parola, ancora e ancora, modulava le vocali, la spezzava in sillabe, si aiutava con le mani, faceva gesti, capiranno che mi serve un yuan, pensava, un solo fottuto yuan per le sigarette. Yan urlava, urlava come una forsennata, ma le sue urla presto iniziarono ad essere coperte dalle voci dei passanti, ormai una folla, tutta intorno a lei, che si infoltiva minuto dopo minuto; venti persone, poi quaranta, settanta, cento persone, la circondavano, tutte intente a capire cosa cercasse di dire, quella povera matta, cosa la facesse dannare così tanto. Yan ancora sbraitava, si sgolava, e la folla si moltiplicava, minuto dopo minuto; vista dall’alto era una macchia d’olio che si espandeva lungo la strada. Yan era ancora buttata a terra, disperata, e ormai tra le lacrime e la voce che le si spezzava, non articolava nemmeno più suoni umani, si limitava a mimare con le mani il gesto di chi fuma e a fare di no con la testa quando le chiedevano se volesse questa cosa o quell’altra. Alla disperazione di Yan che non riusciva a farsi capire si aggiunse la disperazione dell’intera folla che proprio non capiva. Ed erano già quasi mille, tutti riuniti intorno a lei, le si facevano sempre più vicini, sempre più stretti; stavano divorando ogni centimetro di suolo, e intanto continuava ad affluire altra gente, dai palazzi, dai negozi, da altre strade, tutti lì, tutti intorno a Yan, che sentiva mancarsi il fiato ora, che non piangeva più adesso, che stramazzava a terra dimenandosi; aria, chiedeva, un po’ d’aria, sempre col suo accento sbilenco, il suo accento che nessuno capiva, ancora un flebile suono, appena un’incrinatura nella baraonda, prima di finire inghiottita dalla folla soffocata senza nemmeno aver fumato l’ultima sigaretta.

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