Per Yan fumare era come respirare, per quanto possa suonare ironico. E per la cronaca, non si chiamava affatto Yan; quello era il nomignolo che i suoi nuovi colleghi, lì, nel paese in cui si era trasferita, le avevano appioppato. Nella loro lingua Yan voleva proprio dire sigaretta, o fumo, a seconda dell’uso, perché quello faceva la donna tutto il giorno tutti i giorni, a ogni momento, all’aperto e, di nascosto, al chiuso: fumare. Quando dischiudeva le labbra per parlare si poteva scorgere un rivolo di fumo uscirle dalla bocca, come se da qualche parte tra i denti e le guance nascondesse una sacca di tabacco, accumulato negli anni, di cui fare uso nei pochi minuti di astinenza che trascorreva. Le tasche delle sue giacche, - e parliamo di giacche di elevata fattura e di altrettanto elevato prezzo - traboccavano di rimasugli di sigarette e pacchetti vuoti, con l’apertura fatta a pezzi, chiaro segnale di quello che accadeva quando rimaneva senza fumare per più di mezz’ora. Qualcuno dei suoi amanti giurava di averla vista fumare addirittura sotto la doccia. Per non parlare delle volte che, a cavalcioni su uno di loro, nei momenti d’intimità, capitava che dalla bocca le cadesse l’intera sigaretta accesa, dritta sul petto villoso dell’uomo che con un colpo di fianchi le aveva fatto spalancare le labbra per il piacere. Neanche a dirlo, tutti finivano per mollarla. Poco male, pensava Yan, meglio una sigaretta in più che un uomo. Pensiero che poi, più o meno inconsciamente, andava a infestare ogni aspetto della sua vita: meglio una sigaretta in più che tutto il resto. Quelle volute grigie di fumo che alzandosi in spirali andavano a diffondersi tutto intorno al suo bel viso levigato erano il suo ossigeno.
Un giorno, nel tardo pomeriggio, uscendo dall’ufficio, Yan frugò nella borsa con l’intenzione di portarsi la sigaretta in bocca e accenderla non appena si fosse trovata all’aperto. Dannazione!, doveva aver lasciato il pacchetto sulla scrivania. Tornò al piano di sopra di corsa ma non trovò alcunché alla sua postazione; cercò nel cestino – magari sono cadute, pensò – senza trovare nient’altro che carta straccia. Ancora lucida nonostante un iniziale tremolio che denotava l’ingolfarsi dell’agitazione, ricordò, o pensò di ricordare, di aver lasciato un paio di sigarette di scorta in una tasca interna dello zaino. Ricordava male perché anche lì non c’era nulla, se non vecchi scontrini e due matite spuntate. Poi le venne in mente “le tasche della giacca!” Rovesciò tutto il contenuto delle tasche sul tavolo da lavoro, ma nulla, non aveva altri pacchetti. Niente panico, si disse, le andrò a comprare. Uscì dal palazzo dell’ufficio – stavolta saettando, cavalcando il panico che le stava contorcendo il viso – e si fiondò al primo tabaccaio. Chiuso. Era così tardi? Non se ne era nemmeno accorta. Quanto tempo era stata in ufficio a cercare le scorte? Non importava, non c’era tempo da perdere in riflessioni, doveva fumare. Per fortuna, c’era un distributore fuori dal tabaccaio. Prese la sua tessera sanitaria, la infilò nella fessura e attese che lo schermo le desse gli ordini. 17 yuan per un pacchetto di Marlboro. Non fu affatto una sorpresa quando aprendo il portafogli non trovò nemmeno una banconota perché lì pagava solo col bancomat. Si mise a contare le poche monete rimaste: uno yuan, tre yuan e mezzo, cinque, otto yuan e dieci yuan, undici, sedici. Basta. Non aveva altre monete. Come aveva fatto per le sigarette, così fece per quell’unico solo yuan mancante: riversò la borsa per terra, sul marciapiede, di fronte al distributore. I passanti guardandola pensavano avesse perso qualcosa di vitale tanta era la foga e la disperazione con cui cercava. E frugava, rimestava gli oggetti, rovistava, a tratti imprecava. Addirittura, l’acconciatura che la mattina era tanto ben raccolta sulla sua nuca, ora pendeva in ciocche disordinate che le finivano sulla schiena, e le calze non avevano sopportato l’urto con l’asfalto ruvido dove Yan si era inginocchiata. A niente però servì quella disperata ricerca. Nessuna moneta era rimasta sul fondo della borsa, al massimo un tappo di bottiglia che per un momento lei aveva scambiato per lo yuan mancante, niente più di quello. Allora, le venne in mente di fermare qualche passante, qualcuno gliel’avrebbe dato uno yuan, un solo yuan e che vuoi che sia, sì, qualcuno si sarebbe fermato. Uno, due, tre passanti, nessuno mostrò interesse. Solo il quarto si fermò, un bel giovane, può prestarmi un euro, per favore? Sarà stata la poca familiarità con la lingua di quel lontano popolo, o magari sarà stato quel difetto di pronuncia che le impediva di articolare bene i suoni, ma il ragazzo non capì nulla. Le si avvicinò e le chiese di ripetere. Yan abbaiò un suono disarticolato, lui di nuovo non capì. Il volto di Yan si fece più contrito, più rigido, gli occhi le tremavano negli incavi, perché non mi capisce? Ripeté quella parola, col suo strano accento, con quella pronuncia vaga, appena abbozzata. Di nuovo, niente. Yan la ripeté, stavolta prima alzando la voce, poi urlando. E quando si mise a urlare, con le mani nei capelli, il ragazzo le si avvicinò ancora di più, poi con un cenno fece accorrere dall’altro lato della strada altri passanti che lo aiutassero a capire di cosa avesse bisogno quella strana ragazza. Lei piangeva, aveva gli occhi ridotti a due laghi di brace, e ripeteva quella parola, ancora e ancora, modulava le vocali, la spezzava in sillabe, si aiutava con le mani, faceva gesti, capiranno che mi serve un yuan, pensava, un solo fottuto yuan per le sigarette. Yan urlava, urlava come una forsennata, ma le sue urla presto iniziarono ad essere coperte dalle voci dei passanti, ormai una folla, tutta intorno a lei, che si infoltiva minuto dopo minuto; venti persone, poi quaranta, settanta, cento persone, la circondavano, tutte intente a capire cosa cercasse di dire, quella povera matta, cosa la facesse dannare così tanto. Yan ancora sbraitava, si sgolava, e la folla si moltiplicava, minuto dopo minuto; vista dall’alto era una macchia d’olio che si espandeva lungo la strada. Yan era ancora buttata a terra, disperata, e ormai tra le lacrime e la voce che le si spezzava, non articolava nemmeno più suoni umani, si limitava a mimare con le mani il gesto di chi fuma e a fare di no con la testa quando le chiedevano se volesse questa cosa o quell’altra. Alla disperazione di Yan che non riusciva a farsi capire si aggiunse la disperazione dell’intera folla che proprio non capiva. Ed erano già quasi mille, tutti riuniti intorno a lei, le si facevano sempre più vicini, sempre più stretti; stavano divorando ogni centimetro di suolo, e intanto continuava ad affluire altra gente, dai palazzi, dai negozi, da altre strade, tutti lì, tutti intorno a Yan, che sentiva mancarsi il fiato ora, che non piangeva più adesso, che stramazzava a terra dimenandosi; aria, chiedeva, un po’ d’aria, sempre col suo accento sbilenco, il suo accento che nessuno capiva, ancora un flebile suono, appena un’incrinatura nella baraonda, prima di finire inghiottita dalla folla soffocata senza nemmeno aver fumato l’ultima sigaretta.
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